
La “sburocratizzazione” del Paese è da qualche giorno protagonista indiscussa del Piano per la ripresa nazionale. Una priorità tra le riforme, da attuare non solo per accedere ai finanziamenti dell’Ue, ma anche per rilanciare il Paese liberandolo dalle pastoie di una pubblica amministrazione appesantita da formalità e gerarchie.
Dalle pagine del Corriere della Sera Sabino Cassese, amministrativista e profondo conoscitore della macchina statale, ricorda quanto il premier Conte insista sulla necessità di “tagli alla burocrazia che ancora oggi costituisce un freno alla crescita economica e sociale del Paese”. Ma l’insigne giurista non manca di inchiodare l’attuale classe politica alle sue corresponsabilità circa l’inefficienza dell’amministrazione. “Nessuno in questi anni (compresi gli ultimi due)”, scrive, “si è preoccupato di tre punti chiave di una buona gestione: selezione degli amministratori, disegno delle procedure, congegni diretti a motivare il personale”. Come non essere d’accordo?
Da decenni la pubblica amministrazione, sia a livello centrale che locale, soffre di mali endemici. Lacci e lacciuoli imbrigliano le procedure, competenze e decisioni sempre più spesso vengono esternalizzate. E l’indirizzo politico invade l’ambito amministrativo con nomine discrezionali ai vertici di organi importanti sulla base di criteri sostanzialmente fiduciari. Conseguenza questa dei cosiddetti atti di alta amministrazione, una sorta di spazio aperto tra il potere politico e l’amministrazione vera e propria. Ogni esecutivo, nazionale come regionale, si porta dietro un piccolo esercito di dirigenti che durano in carica quanto chi li nomina. Se i governi hanno vita breve decisioni, atti, e procedimenti ne seguono la sorte. E ogni volta si ricomincia da capo. Per non parlare del problema delle competenze. Questi dirigenti a cui si richiede lealtà – come ha sottolineato anche il professor Cassese - e obbedienza più che capacità e servizio all’interesse pubblico rappresentano la longa manus del poter politico. Di fronte al quale i dirigenti “interni” possono poco o nulla. Di esempi ce ne sono tanti. Non ultimo la nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie che spetta ai presidenti di Regione e la cui discrezionalità resta ampia. Oppure, ancor più rilevante, dei capi di gabinetto di Ministeri, Regioni e Comuni.
Un libro di autore anonimo, “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto” svela i clamorosi retroscena e le manovre di ‘palazzo’ alla base della selezione di figure apicali chiamate a gestire pezzi di amministrazione di cruciale importanza. Il metodo è quello della ‘cooptazione’. E lo scacchiere da cui pescare, spiega l’autore, cambia a seconda dei casi: magistratura ammnistrativa o contabile, accademici, funzionari parlamentari. Che a loro volta, secondo la ricostruzione fornita che indubbiamente consegna all’opinione pubblica scenari poco conosciuti, costituiscono un ‘potere’ nel ‘potere’. Intessono reti, relazioni, decidono strategie. Passano con disinvoltura da una poltrona ad un’altra (anche di colore diverso), spesso rimanendo ‘a galla’ per decenni. Il corto circuito è che i politici possono restarne succubi. Forse il premier Conte si riferiva a questi esponenti dell’alta burocrazia quando qualche giorno fa ha detto: “Pezzi di Stato remano contro il Governo?”. Può darsi.
Altro aspetto, invece, è quello che riguarda la riduzione e lo snellimento dei passaggi procedurali e che si lega strettamente a un riesame della ripartizione delle competenze. Evitare i rimpalli tra uffici pubblici, e doppioni tra enti e organismi vari alleggerirebbe, eccome, l’iter delle procedure. Ma riformare l’amministrazione pubblica e semplificare l’apparato burocratico non è cosa da poco. Si tratta di un’operazione gigantesca, destinata a durare anni.
Il Piano di Rilancio elaborato dalla task force di Vittorio Colao sfiora ma non approfondisce i temi cruciali. E avrebbe potuto, e dovuto, essere più specifico su alcuni punti. Senza dubbio elenca obiettivi condivisibili ma non esaustivi. Revisione dei modelli di lavoro, diffusione dello smart working, rafforzamento della cyberdifesa, trasferimento delle banche dati in cloud e trasformazione digitale sono sì aspetti da considerare. Ma fondamentale è anche la classe di amministratori, funzionari e dirigenti chiamata a guidare la macchina Paese. Basta una nuova Agenzia (che il Piano prevede) che recluti il personale dello Stato per risolvere tutti i problemi di selezione degli amministratori pubblici? E la formazione della classe dirigente? E come liberare le istituzioni amministrative dalla presenza troppo invasiva della politica? E la stessa burocrazia dai suoi potentati interni?
La pubblica amministrazione in una nazione è l’ossatura dello Stato, anzi è lo Stato. Diceva Giovanni Manna, giurista e ministro del Regno d’Italia: “I governi passano, l’amministrazione resta”. Ma è ai Governi che spetta il compito di decidere se avere un’amministrazione più forte ma snella, che fa camminare e correre il Paese senza asfissiarlo.