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Ritratti (poco) diplomatici

Colin Powell e James Mattis, la protesta USA parte anche dall'alto

Colin Powell e James Mattis, due figure di primo piano contro il Presidente Trump. Una spaccatura che ha ormai coinvolto anche i poteri dello stato

Colin Powell e James Mattis, la protesta USA parte anche dall'alto

In queste settimane sta succedendo qualcosa di nuovo negli Stati Uniti. Non si tratta solo delle proteste partite dal basso intorno al movimento “Black lives matter” (“Le vite dei neri contano”) in seguito all’uccisione di George Floyd avvenuta a Minneapolis, e che si sono spinte fino all’esterno della Casa Bianca costringendo Donald Trump a rifugiarsi nel bunker dell’edificio nell’eventualità che le cose si mettessero male per la propria incolumità. Si tratta di qualcosa che sta partendo anche dall’alto e che potrebbe avere effetti più importanti sulle istituzioni statunitensi. Non era mai capitato prima d’ora che figure chiave dell’establishment – e in particolari provenienti dall’apparato militare - prendessero posizioni così chiare contro il Presidente in carica.

Stiamo parlando di Colin Powell e James Mattis, personalità di spicco il cui “pedigree” è  al di sopra di ogni sospetto, avendo servito entrambi per governi repubblicani. Negli ultimi giorni, entrambi hanno dichiarato inequivocabilmente la loro contrarietà a Trump e al suo approccio divisivo nel gestire le tensioni sociali scaturite dall’incidente di Minneapolis. Se Powell ha dichiarato alla CNN che “il Presidente ha deragliato dalla Costituzione”, Mattis è arrivato a dire che “Trump è il primo Presidente della storia che non solo non sta facendo nulla per mantenere unita la popolazione, ma sta anzi facendo del suo meglio per dividerla”. Non solo: sempre secondo Mattis, il Presidente è arrivato a strumentalizzare le Forze Armate – in quanto Commander in Chief – solamente per trovare occasioni per delle “photo opportunity” che dessero risalto alla propria figura umiliando al contempo il ruolo dei militari.

Sia Powell che Mattis, prima ancora di ricoprire cariche di estremo rilievo rispettivamente nel primo Governo di George W. Bush (in qualità di Segretario di Stato) e proprio in quello di Trump (come Segretario alla Difesa fino al 2018, prima di dare le dimissioni perché in contrasto con la strategia del Presidente sulla Siria), sono stati esponenti di spicco delle Forze Armate statunitensi. Il curriculum di Colin Powell , di origini giamaicane, culminò nel 1989 con la nomina a capo dello stato maggiore congiunto, la più alta posizione militare nel reparto della Difesa statunitense. James Mattis, che alla causa della Difesa ha dedicato la sua intera esistenza (è soprannominato “monk warrior”, monaco guerriero, proprio per non essersi mai sposato né aver avuto figli), è stato invece a capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, con responsabilità strategiche sull’intero Medio Oriente. Entrambi sono stati servitori dello Stato ubbidienti e fedeli: per certi versi fin troppo, se ricordiamo che Powell arrivò di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a mostrare prove rivelatesi poi fasulle per forzare la mano e ottenere il via libera all’invasione dell’Iraq nel 2003.

In ogni caso, la loro ascesa professionale mostra come il ruolo dei militari nel sistema nordamericano è estremamente importante e rispettato proprio per la loro tradizionale lealtà, discrezione e spirito di servizio. Conservo un buon ricordo personale  di Powell, che conobbi durante il mio periodo di Ambasciatore a Washington: razionale, riflessivo, grande intellettuale, giunse a rinunciare ,sostenuto dalla moglie, alla candidatura per Presidente degli Stati Uniti, pur di non rappresentare un elemento divisivo nella politica americana. Ma potrei citare anche un altro generale, Peter Pace (originario di Noci, località in provincia di Bari), giunto ai vertici delle Forze Armate durante la Presidenza Bush, come ulteriore esempio di militari equidistanti, veri democratici nello spirito.

Le esternazioni di Powell e Mattis sono dunque l’indice che anche all’interno dei diversi poteri dello Stato federale si stanno creando delle spaccature, che potrebbero nuocere a Trump ancor di più dei movimenti di protesta popolare. Se un servitore dello Stato tradizionalmente leale e “super partes” prende posizione in maniera inusuale, allora tali azioni  rappresentano un livello di contrasto e divisione giudicato inaccettabile anche dai vertici stessi delle istituzioni statunitensi. Vedremo nei prossimi mesi se il Presidente in carica riuscirà a cavalcare l’onda controversa dei contrasti sociali per ottenere la rielezione, o se invece ne resterà travolto. Con una fetta importante del Partito Repubblicano che potrebbe voltargli le spalle, il secondo scenario rischia di prendere sempre più concretezza.  

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