Le priorità delle imprese per far ripartire il lavoro secondo Bonomi

Il testo integrale dell’intervento del presidente di Confindustria agli Stati generali sulla difficilissima situazione dell’economia del Paese Italia

Le priorità delle imprese per far ripartire il lavoro secondo Bonomi

Poiché il nostro Paese si salverà o affonderà se saprà davvero affrontare e sostenere la ripartenza dell’economia durante e dopo il Covid che continua ad affliggere la Lombardia, cuore produttivo e simbolico del Paese, pubblichiamo l’intervento integrale (ripreso dal sito di Confindustria) di Carlo Bonomi, che di fatto ha invitato il governo e il premier Conte a uscire dal Truman show degli Stati generali per mettere a terra da subito le priorità, le cose da fare oggi e non in autunno per non far fallire le aziende, per far ripartire i consumi e la fiducia. Richieste non politiche ma operative, anche se i principali commentatori oggi hanno scritto che Bonomi e la Confindustria sono l’unica vera opposizione al governo: cosa verissima, ma si tratta di una posizione obbligata, di difesa del lavoro, dell’occupazione, delle imprese e del posizionamento del Paese, che rischia di perdere la sua posizione di seconda manifattura d’Europa e il suo ruolo all’interno del G7 e del G20, i paesi più industrializzati del mondo: “meglio essere chiari e ruvidi oggi che dovercene pentire domani”, dice Bonomi. 

 

Auspichiamo che il governo possa cogliere lo spirito che anima le imprese, a partire da quelle più piccole che sono l’ossatura del sistema produttivo italiano, e sostenerle nel modo migliore. (Ade)

 

Intervento del presidente di Confindustria Bonomi agli Stati generali:

Ecco il testo integrale dell’intervento del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi agli Stati generali:

 

Signor Presidente del Consiglio, signore e signori Ministri, grazie innanzitutto per l’invito che ci avete rivolto a partecipare a questo incontro.

Il compito che tocca al vostro Governo è immane. Non sfuggono a nessuno, e certo non alle imprese, le difficoltà estreme con cui l’Italia si trova a dover assumere decisioni essenziali, su un problema così complesso come la bassa crescita strutturale da decenni. Aggravata da nuove ferite profonde a ogni crisi.

 

Ed è proprio partendo da questo oggettivo e sincero riconoscimento della condizione in cui vi trovate ad operare, voi come Governo e noi come forze della produzione, del lavoro e della società civile, che riteniamo opportuno però usare il linguaggio della franchezza.

 

Partirò quindi da alcune considerazioni di principio, per sgomberare il campo da polemiche che non piacciono a noi, come non piacciono a voi.

Quanto ho affermato in questi giorni sono esternazioni riferite esclusivamente ai temi economici del Paese e nulla hanno a che vedere con temi politici.

Perché è un fatto, che le scelte pubbliche adottate in Italia negli anni alle nostre spalle abbiano reso più duraturi e gravi che in altri Paesi Ue i colpi portati dalla grave crisi mondiale del 2008 e da quella europea del 2011.

 

E’ un fatto, che l’Italia era l’unico Paese UE già alle porte della recessione prima del virus: non solo per il freno al commercio mondiale e al nostro export dovuto alle guerre protezionistiche, ma perché le decisioni pubbliche in Italia avevano congelato la ripresa degli investimenti privati che, grazie a Industria 4.0, con l’export, avevano costituito la base della ripresina 2015-17.

 

E’ un fatto, che alla fine del 2019 eravamo l’unico grande Paese UE a dover ancora recuperare quasi 4 punti di PIL rispetto ai livelli del 2008.

Come è un fatto, non un’opinione, che le misure economiche assunte in Italia a fronte del virus si siano rivelate più problematiche che in altri Paesi UE.

La CIG l’hanno dovuta anticipare in vasta misura le imprese. E così sarà anche per le ulteriori 4 settimane varate lunedì.

 

 E analogo ritardo viene dalle procedure per i sostegni alla liquidità delle imprese.

Come è un fatto, non un’opinione, che governi di ogni colore negli anni alle nostre spalle abbiano privilegiato la spesa corrente e un’infinità di bonus a tempo rispetto agli investimenti pubblici e a riforme strutturali: col risultato che siamo in Europa il Paese per debito pubblico drammaticamente più esposto a rischi di sostenibilità della nostra finanza pubblica.

La riflessione che abbiamo condotto in Confindustria parte proprio da questo punto: ora che il virus ci mette di nuovo con le spalle a terra, c’è un errore che non possiamo permetterci il lusso di commettere.

Per un Paese trasformatore come noi siamo, l’impegno contro la nuova dolorosa recessione può avere successo solo se non nascondiamo a noi stessi colpe ed errori che abbiamo commesso, tutti, negli ultimi 25 anni.

 

E contano non solo riflessioni e proposte appropriate, Presidente Conte, ma anche alcuni gesti simbolici e dimostrativi, per testimoniare che si volta pagina.

Lo Stato deve rispettare le sentenze della magistratura. Emblematico il caso della mancata restituzione di 3,4 miliardi di euro di accise sull’energia, impropriamente pagate dalle imprese e trattenute dallo Stato nonostante una sentenza della Corte di Cassazione che ne impone la restituzione.

 

Lo Stato deve rispettare i contratti e onorare i propri debiti. Non è più accettabile che per smaltire i debiti arretrati occorra ogni volta adottare provvedimenti straordinari che rimediano solo in parte al pregresso accumulato, quando basterebbe semplicemente applicare le stesse regole che si applicano ai privati, consentendo loro di compensare debiti e crediti verso lo Stato.

Sul fisco, non possiamo operare restando in attesa per oltre 60 settimane in media della regolazione da parte dello Stato dei crediti IVA alle imprese , quando negli altri Paesi avviene in meno della metà.

Potrei continuare a lungo, ma mi fermo a questi pochi esempi.

 

Presidente Conte, noi non siamo affatto convinti che ci sia uno Stato cattivo e un privato buono. Noi ci limitiamo a pensare che ogni democrazia moderna vive e progredisce se ha istituzioni efficienti e funzionanti, se ha cioè una Pubblica Amministrazione buona - come l’ha definita proprio in questa sede il Governatore della Banca d’Italia.

Per questo, Presidente, è fondamentale iniziare presto con misure concrete, ma che siano anche ad alto valore simbolico.

E’ vero e lo ribadisco: per noi sarebbe stato preferibile ascoltare un quadro preciso delle priorità intorno alle quali governo e maggioranza intendono articolare i propri interventi, con un preciso cronoprogramma e una seria valutazione ex ante delle misure, degli stanziamenti e degli impatti attesi sul PIL.

Una lista infinita di interventi su ogni ambito della vita italiana non indica priorità, mostra solo l’ampiezza dei problemi aperti.

Né è possibile assumere come programma d’azione alcune indicazioni generiche come quelle che abbiamo letto sui media: “la riforma del fisco”, “la riforma del diritto societario”, “la riforma degli ammortizzatori sociali”.

 

Fatte come? In vista di che obiettivi?

Colgo invece questa occasione per indicare almeno sinteticamente la visione delle priorità a giudizio di Confindustria. Nella speranza che di qui in poi il confronto tra Governo e Imprese sia serrato e costruttivo: perché i tempi sono stretti e il tempo lavora contro gli interessi del Paese.

 

Siamo nelle condizioni di offrire all’attenzione del Governo e di tutte le parti sociali una riflessione molto approfondita del piano di riforme che a nostro giudizio dovrebbe incardinare la base delle proposte che l’Italia dovrà presentare in autunno all’Europa per avere accesso ai trasferimenti e crediti del Recovery Fund, che ci auguriamo venga approvato nella versione varata della Commissione Europea.

 

Una parola, su questo. Se sommiamo, l’estensione ulteriore dei programmi straordinari di acquisto titoli sui mercati da parte dalla BCE sospendendo la capital key a favore dell’Italia, la riallocazione di fondi europei da parte della Commissione di cui avevamo perso il titolo all’uso, i crediti straordinari annunciati dalla BEI, la quota per il nostro Paese derivante dal SURE, i 2 punti di PIL del nuovo MES non condizionato che alla spesa sanitaria diretta e

indiretta, e il Recovery Fund nella versione annunciata,

l’Italia totalizza un ordine di risorse a disposizione nei prossimi anni pari a più del 25% del proprio PIL.

 

È un’occasione storica. Disconoscere che questa volta l’Europa – a cominciare da Germania e Francia - ha imboccato la via dell’estensione del proprio bilancio con un debito pubblico proprio, e ha messo in moto risorse come nel post 2008 e post 2011 non seppe fare, è un errore gravissimo per l’Italia.

Non fatelo. E usate il MES sanitario, liberando risorse che servono anche ad altro.

Non preferite la via di un ancor più massiccio indebitamento con emissioni nazionali: non solo costa di più, ma ricorrere a titoli pubblici esentasse aggraverebbe ulteriormente il freno già enorme all’affluenza del risparmio nazionale alle imprese, visto che già oggi la rendita da titoli pubblici è tassata al 12,5% mentre i capital gain lo sono al 26%.

 

Di fronte alla stagnazione in cui eravamo già mesi fa, agli effetti drammatici del lockdown, abbiamo effettuato una ricognizione in profondità dei gap da colmare ereditati dal passato, organizzata in 5 capitoli – sviluppo e imprese; i processi di innovazione; la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo; la demografia e le diseguaglianze di reddito; la PA e gli assetti istituzionali – abbiamo chiamato a confronto esperti, professionisti e rappresentanti delle istituzioni a cominciare da Bankitalia, a loro abbiamo affidato la sintesi e la redazione delle analisi e proposte, ne abbiamo fatto un rapporto intitolato Italia 2030, e infine lo abbiamo aggiornato agli effetti del COVID per proporlo ora a tutti come base della visione di Confindustria.

Gliene consegnerò copia al termine del mio intervento, Presidente Conte, e sarà nostra cura farlo pervenire a tutti i membri del Governo.

 

 In questa sede mi limito a illustrarvi le nostre tre priorità di metodo, e ad avanzare infine solo alcune proposte conseguenti, a titolo di esempio.

Le priorità più essenziali – direi “trasversali” alle misure da varare - sono tre.

La prima è la produttività: la grande assente da 25 anni nel dibattito pubblico italiano, 25 anni di sostanziale stagnazione a differenza che negli altri Paesi avanzati.

La produttività stagnante ha effetti che si cumulano negativamente non solo nella produzione, ma nell’intera sostenibilità dell’Italia.

Rende infatti sempre meno sostenibile il debito pubblico, perché abbassando di anno in anno il PIL potenziale rende l’aumento del PIL nominale sempre inferiore al sia pur molto diminuito onere annuale del debito pubblico.

Ogni timida ripresa italiana, porta ad un rilancio degli occupa ti che di verge dall’andamento del valore aggiunto, cioè alimenta un’occupazione a bassa qualifica e basso reddito.

 

Inoltre la produttività stagnante scoraggia la crescita dimensionale delle imprese, la loro maggior patrimonializzazione, la loro ascesa nelle catene di fornitura internazionali, e i loro margini da destinare a investimenti.

Su questa priorità, noi la pensiamo esattamente come la Banca d’Italia, come il governatore Ignazio Visco ha detto nelle sue ultime considerazioni finali, e come ha ripetuto intervenendo qui.

 

Abbiamo una vastissima letteratura accumulata in 20 anni, e ogni anno in primavera il rapporto produttività dell’ISTAT aggiorna i dati che indicano con estrema precisione dove si annida il problema

Non nelle imprese della manifattura che esportano: sottoposte come sono ai morsi della competitività internazionale esse hanno continuato a dare un apporto positivo e in ascesa alla produttività multifattoriale.

 

Il contributo negativo alla produttività viene dal terziario non di mercato, cioè dalla PA e dai servizi pubblici. E insieme da vaste aree del terziario di mercato, gestite però in regime di concessione pubblica, di prezzi amministrati, e-o sottratti alla logica di concorrenza e gare trasparenti.

 

 Noi faremo una grande battaglia per la produttività del lavoro, ponendola al centro dei rinnovi contrattuali e parlandone con il sindacato. Oggi quasi il 90% dei contratti è scaduto o in scadenza, ma l’indicatore IPCA dei prezzi al netto dell’import energetico che si usa per i benchmark dei rinnovi indica attualmente andamenti salariali stagnati o negativi di cui nessuno avverte il bisogno. Per questo occorre ridefinire dal basso, tra imprese e sindacati, una visione condivisa del nuovo lavoro, della sua organizzazione, delle sue qualifiche, centrata e misurata sulla produttività e sull’estensione dei diritti alla formazione, del welfare aziendale, dell’eguaglianza di genere e della coerenza tra organizzazione del lavoro e cura parentale.

Ma tutto ciò riguarda solo una delle componenti della produttività: quella del lavoro.

La vera emergenza è la bassa produttività del capitale finanziario investito, di quella del capitale fisico, e degli intangibles.

Su questo serve una rivoluzione della visione pubblica pluriennale da parte dei governi.

 

Significa non solo una PA misurata a propria volta, nella sua organizzazione e nei suoi contratti, su base di precisi parametri di produttività se vogliamo risolvere, ad esempio, il problema storico dell’incapacità di presentare progetti in linea con gli standard dei Fondi Europei.

Significa una tassazione diversa degli intangibles, non solo il modestissimo esempio del Patent Box che si è rivelato fonte di infinite controversie interpretative.

Significa com’è ovvio la ripresa potenziata in grande stile di Industria 4.0, non solo sui beni fisici strumentali ma anche estesa al Fintech 4.0.

Significa l’adozione di un modello preciso iper-incentivato per il trasferimento tecnologico tra ricerca e imprese.

 

Significa avere una visione precisa sulla qualificazione dell’offerta formativa della nostra istruzione secondaria, terziaria e post terziaria. Non si può limitare il problema della formazione pubblica agli organici perennemente in affanno e la vetustà del nostro patrimonio immobiliare dedicato.

 

E occorre agganciare tutto questo alle politiche di formazione permanente su cui ridisegnare i contratti aziendali e le politiche attive del lavoro, che vanno al più presto riseparate dall’abbraccio mortale dell’inglobamento nel Reddito di Cittadinanza che, nella sua componente positiva di estensione del contrasto alla povertà, ha tutt’altre finalità e metriche.

 

Significa avere una visione chiara sull’economia digitale, che ci vede quart’ultimi nella UE. Risolvendo senza espropri a privati il nodo della rete ultralarga. E con un cronoprogramma preciso per l’abolizione massima della carta nei servizi pubblici come nella giustizia.

 

E significa avere infine una visione del mercato che costituisca una svolta rispetto alla tendenza sempre più ampia di procedere a deroghe rispetto a gare trasparenti: perché nell’opacità di forniture relazionali si annida non solo una fonte certa di sprechi pubblici, ma di pessimi comportamenti collusivi anche tra privati. Se le gare hanno tempi infiniti bisogna ridisciplinarle per ammontare con tempi certi, non derogarle e abolirle.

 

Come vedete, è una priorità assolutamente trasversale.

La seconda priorità trasversale è quella della misurazione di qualità ed efficacia della spesa pubblica.

Non si può pensare che risolveremo il problema con cui siamo alle prese da 25 anni semplicemente ignorandolo. E che per risolverlo, basta avere più spesa, più deficit e più debito, o se volete oggi più debito a basso costo e più trasferimenti dall’Europa.

No, è un errore, sarebbe un’illusione. A questo punto molto pericolosa: perché la sospensione del patto di stabilità UE non sarà eterno, e perché un simile ammontare di risorse lo avremo a disposizione non solo se presentiamo come Italia un piano serio e credibile, ma se questa volta i risultati anno dopo anno saranno lì a testimoniare che gli esiti raggiunti sono apprezzabili.

Potete stanziare tutte le cifre che volete, ma se come avvenuto per la Cassa-Covid lo fate ignorando che molte Regioni non hanno risorse e personale per processare in pochi giorni migliaia di pratiche, i soldi non arrivano.

Potete estendere per trimestri e trimestri il divieto di licenziamento accompagnato alla CIG per i lavoratori, ottenendo così che non figurino come disoccupati, ma ritardando la ristrutturazione delle imprese, gli investimenti e l’occupazione aggiuntiva. Alla fine avrete bruciato miliardi che ben diversamente avrebbero potuto essere utilizzati a sostegno della crescita vera.

E’ lo stesso mancato criterio di misurazione degli effetti comparati di spesa sostenuta, quello che ha indotto a misure come la nazionalizzazione di Alitalia accompagnata da misure ostili ai suoi concorrenti, o che potrebbe portarvi alla nazionalizzazione di ILVA senza avere un credibile piano industriale.

O che vi ha fatto immaginare un fondo di dotazione per CDP spinto fino a 44 miliardi e con un orizzonte di 12 anni, per entrare nel capitale delle imprese private.

Su che base di stima comparata degli effetti di tali cifre, vengono assunte queste decisioni?

 

Un altro esempio amaro della nostra bassa capacità di misurare la spesa pubblica: gli effetti sociali. Siamo il Paese europeo con il welfare più squilibrato, e insieme ostile alla crescita, alla famiglia e a chi ha meno. Abbiamo aumentato in 25 anni di 2,3 volte il totale della spesa sociale del nostro Paese: ma essa è pericolosamente spostata per la più alta percentuale verso le pensioni, col risultato che resta assai meno che negli altri Paesi avanzati per chi ha meno reddito, per i giovani, il sostegno alla famiglia e al lavoro femminile, e per le politiche attive del lavoro.

 

Caro Presidente Conte ci ascolti: è il momento di costituire – al MEF o al ministero della PA, vedete voi – un’unità autonoma di valutazione comparata degli effetti attesi dalle misure di spesa e investimento pubblico, no n e laborati sulla base di modelli macroeconomici bensì microeconomici, basati cioè sulla quantità di misure attuative e sulle procedure vigenti all’atto dell’emanazione per misurarne ex ante le stime, e controllarne ex post nel tempo i concreti risultati prodotti nell’economia italiana.

Sarebbe una riforma comparabile per importanza ai decreti di unificazione amministrativa italiana del 1865.

 

Senza questi nuovi criteri, il rischio di sprecare quest’occasione storica di ripresa vigorosa del Pil e del reddito degli italiani a nostro giudizio diventa elevatissimo.

E infatti, proponiamo anche una terza priorità. A garanzia del nostro futuro.

Serve da subito anche una cornice credibile pluriennale di sostenibilità della finanza pubblica italiana e di riduzione del debito pubblico.

 

Troverete nel volume che vi consegneremo una specifica approfondita riflessione dedicata a come in un orizzonte di medio periodo affrontare e ridurre in maniera strutturale il maxi debito pubblico italiano, che ha continuato a renderci il Paese Ue più esposto ai venti di ogni crisi. E che ci ha visto colpiti dal virus con molta minor capacità d’intervento rispetto agli altri grandi Paesi europei.

 

Il debito pubblico salirà quest’anno e all’inizio del prossimo verso un ammontare intorno al 160% del PIL, mentre quello europeo salirà anch’esso, ma restando, secondo le attuali stime della Commissione, nell’ordine di 60 punti inferiore.

Serve per questo a nostro avviso un vero e proprio memorandum di orizzonte quantomeno decennale tra Italia e Ue, in cui definire un ragionevole percorso di abbattimento del debito, per giustificare ancor meglio il sostegno europeo per gli ingenti investimenti cui l’Italia sarà chiamata per anni.

 

Quanto detto prima implica riforme per riequilibrare perimetro ed efficienza della spesa pubblica, riorientando la spesa sociale verso indigenti, giovani e famiglie, affrontando i gap sociali e geografici di reddito e partecipazione al mercato del lavoro che in questi anni sono diventati esplosivi, e riformando il fisco in una prospettiva organica e con tappe pluriennali per renderlo leva e non ostacolo allo sviluppo di imprese e lavoro.

Ma tutto ciò deve essere incardinato su una via, scandita a tappe dal 2023, fatta in parte di avanzi primari sostenibili, dall’altra però non di attese di crescita nominale del Pil illusorie e infondate, come sempre avvenuto in 20 anni.

Bensì utilizzando a tal fine anche l’intera offerta di strumenti che l’ordinamento europeo mette a disposizione e al sostegno di chi riduca credibilmente il debito, innalzando e moltiplicando la qualità della spesa pubblica.

Ce ne rediamo conto: non è una prospettiva piacevole.

Ma è seria e necessaria.

Serve a impedire che altrimenti, se non saremo stati noi come Italia a darci un piano simile, il giorno in cui la BCE dovrà rientrare dagli acquisti senza capital key e si ripristinasse il patto di stabilità UE, il nostro Paese si trovi esposto a una nuova devastante crisi di accesso ai mercati per i suoi titoli.

Questo rischio va scongiurato sin d’ora. Ecco le nostre tre priorità trasversali.

 

E come imprese siamo consapevoli di dover cambiare noi per prime.

Concentreremo dunque le risorse delle imprese su alcune priorità essenziali.

Investimenti in innovazione e ricerca, capitale umano, sostenibilità ambientale e sociale delle nos tre produzioni, nuove forme organizzative e contrattua li, proiettività internazionale, estensione delle nostre presenze e quote in mercati strategici e filiere innovative.

Lo faremo in piena cooperazione con le Confindustrie di tutti i Paesi europei, perché crediamo in un destino comune. Lo faremo perché amiamo l’Italia, e non la vogliamo isolata dal mondo.

Ma da subito, presidente Conte, prima ancora di coinvolgerci come speriamo nelle prossime settimane e mesi in un processo di ascolto e confronto continuo e proficuo sulle misure che vorrete apprestare di qui fino alla prossima legge di bilancio compresa, lanci qualche segnale immediato.

 

Ci dica presto come intendete operare sulla leva fiscale, come il cuneo fiscale, non solo in questo 2020, ma a regime dall’anno prossimo.

 

Sciolga i nodi INPS e ANPAL, entrambi gravati da serie anomalie e incompatibilità.

 

Ci dica subito se su automotive, siderurgia e filiere dell’export potremo contare su misure ad hoc come quelle messe in campo da altri grandi Paesi europei.

Diceva Leo Longanesi che le religioni basano spesso nella storia il loro successo sul non essere troppo chiare, e difronte al mistero i credenti aumentano.

 

Non è tempo per le istituzioni e la politica in Italia di adottare lo stesso criterio. Meglio essere chiari e anche ruvidi oggi, che dovercene pentire domani”.

 

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria

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