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Quanto fa bene la multinazionale all’artigiano della moda e del lusso

Tutte le anticipazioni sulla due giorni fiorentina di Dolce&Gabbana di settembre e la combinazione win win fra industria e piccole realtà della moda

Quanto fa bene la multinazionale all’artigiano della moda e del lusso

Per ragioni personali, nelle ultime settimane è capitato di frequentare assiduamente gli artigiani fiorentini: camiciaie, grandi creatrici di lingerie, calzolai su misura. Dovunque entrassimo, ci veniva detto che era da poco (un giorno, forse due) passato Domenico Dolce per la selezione e l’ordine di alcuni capi e oggetti in vista della due giorni couture di settembre. Ce ne venivano raccontate le osservazioni e le valutazioni con quell’orgoglio ritroso e appena malmostoso che è caratteristica regionale in genere, e in particolare fiorentina (per conferme, rileggetevi i commenti di Teresa e Carolina Materassi sulle clienti nel romanzo di Aldo Palazzeschi). Vestaglie di seta da uomo da Loretta Caponi, profumi e piccoli accessori all’Officina Profumo di santa Maria Novella, cuoio speciale presso il Consorzio Cuoio di Toscana di santa Croce per un oggetto che verrà regalato agli ospiti.


Ritrosi ed entusiasti, tutti sembravano (anzi, sembrano perché certamente vi staranno lavorando anche in questi giorni) entusiasti e orgogliosi di partecipare. Fino a quel momento, sapevamo solo che l’organizzazione (e la sponsorizzazione) sarebbe stata – anzi, sarà – di Pitti Immagine, che a giugno non ha potuto offrire il consueto supporto alla città di Firenze a causa dell’annullamento della consueta edizione di Pitti Uomo, un evento che coinvolge 35-40mila persone e che rinvigorisce Palazzo Vecchio come nessun altro evento sa fare (nemmeno Palazzo Vecchio stesso, a volerla dire tutta, che potrebbe sfruttare l’occasione di questa estate priva di turismo d’accatto dai cinque continenti per riorganizzare flussi e offerta come una Disneyland qualsiasi, dove tutti pagano anche 90 euro al giorno a testa senza fiatare, ma temiamo che l’amministrazione di Dario Nardella si limiterà a piangere sulle bancarelle chiuse, preparandosi a inondare i gradini delle chiese di nuovi getti d’acqua saponata quando torneranno a sedercisi i ciabattoni con il panino portato da casa che si godono quel museo a cielo aperto di città consumando servizi e bellezze senza lasciarvi un euro).


Insomma, iniziavamo a figurarci che cosa accadrà a settembre, a immaginare Domenico Dolce nel ruolo inedito dello stylist, o forse anche del demiurgo di certe artigianalità dimenticate o per l’appunto riottose, ma volevamo saperne qualche cosa di più e allora abbiamo telefonato alla signora che, ne eravamo certe, aveva favorito quell’incontro fra l’eccelsa abilità fiorentina, il suo gusto raffinato, e l’abilità commerciale di Dolce&Gabbana nel darle risalto, esercitandosi in cromie e storie diverse da quelle siciliane stereotipate a cui ci hanno abituati ormai davvero da molto, troppo tempo. Da Giuliana Parabiago, un tempo direttrice di Vogue Bambini e Vogue Sposa, da diversi anni pr e marketing consultant di Pitti Immagine, abbiamo saputo quello che una professionista dice in questi casi e che l’amica aggiunge con parsimonia, e cioè che i creatori di meraviglie locali coinvolti sono una quarantina, che sono stati visitati personalmente da Domenico Dolce, uno per uno, in Oltrarno come nelle campagne, “con le galline sul tavolo”, e che a tutti lo stilista ha chiesto il massimo di quanto sapessero e volessero fare, senza mai pensare allo “stile Dolce&Gabbana” ma al proprio.


Se davvero è andata così, e non abbiamo motivo di dubitarne, si tratta di una delle operazioni più intelligenti e generose che abbiamo sentito negli ultimi tempi, e che fa impallidire quanto le istituzioni, tranne rare eccezioni in altrettanto rari momenti e con persone ancora più rare (Carlo Calenda nei suoi anni al Mise, per esempio) hanno saputo mettere in campo negli ultimi anni. Le premesse della gestione attuali dell’Ice, con le sue indeterminatezze burocratiche, la mancanza di una visione, il continuo consulto delle associazioni di categoria per “consigli”, non lasciano ben sperare, Nel frattempo, negli ultimi anni l’artigianato, la “valorizzazione delle eccellenze” - per usare un termine talmente abusato da suscitare ormai quasi solo indifferenza - è diventata una leva di marketing straordinaria per le multinazionali del lusso, sempre in bilico fra la necessità economico-finanziaria della massificazione del prodotto per massimizzare i profitti e l’apparenza di unicità da offrire a chi spende qualche migliaio di euro per una gonna prodotta in serie. Eppure, e lo abbiamo visto con la massima chiarezza dieci giorni fa, in occasione della sfilata cruise di Dior da Lecce, anche questa strategia, in apparenza spuria, e come ovvio interessata, può rivelarsi straordinariamente utile per mettere in risalto nomi, abilità e prodotti che difficilmente riuscirebbero ad emergere con i propri mezzi e che quasi certamente finirebbero per essere schiacciate da interessi “altri” e da logiche sfuggenti nel caso che fossero le istituzioni pubbliche ad interessarsene. Nel campo dell’eccellenza, com’è quella che attiene alla moda, la logica del profitto forse non sarà quella più etica, ma è certamente la più attenta nella selezione e nella scelta.


Nonostante il lavoro attento di CNA Federmoda, e di altre confederazioni di minore entità, è ovvio che i mezzi di un brand come Dior e Dolce&Gabbana, o di un’organizzazione che molto ha lavorato sull’estero per trent’anni come Pitti Immagine, siano infinitamente superiori, e l’eco potenzialmente generata decisamente maggiore, rispetto a quella di qualunque associazione di categoria. La sfilata di Dior è stata vista sui social da quasi 20 milioni di persone, e non ci sono dubbi che almeno il 10 per cento di loro sia andato a cercare sui tantissimi articoli di giornale, sui blog e sui link di Instagram, il nome degli artigiani che hanno collaborato alla realizzazione della collezione. Questo non significa che gli stessi artigiani e le cooperative diventeranno all’improvviso dei produttori di merce in serie e che perderanno l’esclusività della propria produzione cedendo all’imperio del dio denaro e della sua longa manus, l’industria (già sentiamo le lamentele dei puristi contro l’industrializzazione e la perdita dell’innocenza eccetera, ma d’altronde la sentiamo e ne leggiamo dai tempi di Adam Smith e il mondo è andato avanti lo stesso), ma che darà loro nuova visibilità, oltre all’indispensabile fiducia in se stessi e nei propri mezzi.


Il Covid ha messo a dura prova la tenuta economica ma soprattutto psicologica di molte piccole realtà, non solo della moda; un paio di mesi fa parlavamo con Chicco Cerea, della dinastia di “Vittorio”, e ci raccontava di avere fornito i pasti all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo durante l’emergenza, e un servizio a casa a chi lo richiedeva, non solo per sentirsi utile, ma anche per mantenere alto l’umore della brigata di cucina. Il lavoro è soddisfazione personale, è voglia di fare ancor prima di essere fonte di introiti e di sostentamento. Per questo, è un bene che collaborazioni come queste si moltiplichino. E che il “pubblico”, le istituzioni, stiano a guardare. Offrendo, al massimo, sostegno economico.

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