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Alla fiera delle mascherine due visioni del mondo, non solo del virus

Mascherinisti e antimascherinisti sembrano avere tutti dei torti “altri” da far pagare ai propri antagonisti. Il Covid è il paradiso del misogino

Alla fiera delle mascherine due visioni del mondo, non solo del virus

“Masks are here to stay”, titolava l’altro giorno il quotidiano pop inglese, suggerendo le tante soluzioni possibili per evitare di coprire il pianeta di Tnt monouso e comprensivo di elastici e barrette di metallo allegate che sono i componenti disastrosamente essenziali delle mascherine di protezione contro il contagio da coronavirus, nuovi membri stabili delle nostre esistenze. 

 

Qualunque conversazione non prescinde da lui, ogni decisione sulle nostre esistenze nemmeno e, mentre leggiamo avidamente ogni giorno di sperimentazioni su sieri, vaccini e qualunque soluzione possa allontanarci dallo spettro di questa polmonite che non risparmia davvero nessuno, prendiamo atto che le mascherine sono appunto “qui per rimanerci” e per affiancarci lungo l’arco di tutta la giornata, presumibilmente ancora per molto tempo. 

 

Questi dispositivi di protezione usa-e-getta, introvabili a marzo durante il primo attacco della pandemia e costosissimi, sono ormai diventati delle commodities, accessibili ovunque anche nel prezzo. 

 

Nel frattempo, però, il mercato si è evoluto, e con lui anche i gusti dei “mascherinisti” responsabili, cioè di chi vuole proteggere gli altri e se stesso, ma preferirebbe non coprire il pianeta di spazzatura, e che dunque opta per la mascherina lavabile, non di rado griffata per gli irriducibili che oltre ad indossare loghi sulla schiena, sulle borse e sulle valigie. non hanno alcuna remora a farsi stampigliare un brand sulla bocca quasi fosse un atto di fede. 

 

I più timorosi (o i più evoluti, vedete voi) scelgono il modello con la tasca, in cui infilano il filtro prima di uscire, che cambiano ogni quattro-otto ore a seconda del modello. Fra i “post sponsorizzati” di Instagram se ne trovano a decine, tutti in apparenza facilissimi da usare e consegnati a casa al prezzo di mezzo chilo di gelato. 

 

Eppure, nonostante siano cadute tutte le obiezioni che fino a qualche mese fa rendevano la mascherina un oggetto apparentemente prezioso e ipoteticamente passibile di tutela istituzionale (“il goveeeerno ce la deve daaaare”, ricordo le proteste surreali della gente intervistata dai tg, e anche le consegne “politiche” di dispositivi da parte di alcuni membri del governo come il ministro degli esteri Luigi Di Maio a paesi “amici” o presunti tali), il fronte degli “antimascherinisti” non demorde, anzi si rafforza ogni giorno, incrociando lungo la strada del negazionismo i “mascherinisti” duri e puri, spesso rafforzati nella loro intransigenza da spinte scioviniste, rigurgiti di razzismo, afflati di misoginia, pretese di superiorità. 

 

E dunque, pugni al turista tedesco che non solo rifiutava di indossare la mascherina sul vaporetto a Venezia, ma si faceva pure beffe del controllore e chissà suo nonno se non aveva per caso intimato un raush al nonno mio; e ancora insulti ai ragazzini che la sera si assembrano in spiaggia col mojito anzi il gin tonic che è tornato ad essere il drink dell’estate come ai tempi miei, trent’anni fa; staffilate verbali al nonno che al supermercato indossa il cappelluccio di paglia per ripararsi dall’aria condizionata ma porta la mascherina avvolta attorno all’avanbraccio e non poteva starsene a casa. 

 

Sia chiaro, dove c’è obbligo di indossare la mascherina, questa deve essere portata senza che ogni volta si renda necessario aprire un dibattito con chi si rifiuta di farlo. Però, al contempo, mi sono accorta di quanto sia facile trasformarsi in guardiani della virtù civica altrui, per ragioni inconfessabilmente estranee alla protezione propria e dei propri familiari. Sentirsi moralmente superiori, campioni di etica, guardiani della salute pubblica, è diventato uno sport a cui molti italiani non riescono a sottrarsi. Io stessa, dopo aver intimato a una turista francese di infilarsi la mascherina in una sala del Museo di Capodimonte, ho provato una segreta gioia, quasi avessi contribuito a sanare, chessò, la sconfitta nella battaglia di Marignano del 1515, o quella volta che il guardiano della Bibliothèque Nationale non volle farmi fare le fotocopie di quel testo indispensabile per la tesi, nel 1986. Tiè, antipatica, che dovetti andare a cercare quel dannato testo in mezzo mondo e allora non c’erano il web o Jstor. 

 

Mascherinisti e antimascherinisti sembrano aver tutti dei torti “altri” da far pagare ai propri antagonisti. Ma i primi, ovviamente più dei secondi, hanno finalmente potuto dare sfogo al senso di estraneità e di imbarazzo che, fino al Covid, li coglieva nel momento in cui dovevano baciare la vecchia zia, abbracciare il cugino refrattario alla doccia quotidiana, stringere la mano al capufficio affetto da iperidrosi, scambiarsi effusioni con l’amico soggetto ad alitosi. Per loro, che da tempo meditavano di trasferirsi in Giappone dove avrebbero giusto dovuto imparare a inchinarsi più o meno profondamente a seconda delle convenienze e del grado, “Coviddi” è stato una manna. 

 

La scusa perfetta. Il raggiungimento del loro sogno più segreto di antisocialità. Finalmente siedono felici a teatro e al cinema, circondati da poltrone vuote; mangiano soddisfatti al ristorante senza essere incomodati dal chiacchiericcio dei vicini; salgono entusiasti sul metro, certi di non essere incomodati dalle ascelle sudate degli altri passeggeri (alle proprie pensano raramente). Il Covid è il paradiso del misogino. Quando tutto questo sarà finito, sarà a rischio suicidio.

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