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L’insostenibile superficialità della sostenibilità, se l’uomo inquina

Nella moda come altrove la parola d’ordine è il “lavaggio verde”. Ma in troppi casi è fuffa, perché in realtà ci vogliono anni per cambiare strada

L’insostenibile superficialità della sostenibilità, se l’uomo inquina

L’altra mattina ci siamo ritrovati a parlare di sostenibilità nella moda con tre investitori finanziari, due accademici e un paio di osservatori del sistema (no, non è l’incipit di una barzelletta vecchio stile). Nessuno di noi aveva la stessa percezione del tema o, tanto meno, riteneva che potesse essere approcciato nello stesso modo, né dal punto di vista educativo né da quello di marketing o industriale. Per alcuni, “sostenibilità” equivaleva a riciclo dei tessuti e dei capi; per altri a logistica waste free; per altri ancora ad App ipersofisticate, mondi e negozi virtuali. Concordavamo giusto sull’interesse che risveglia nei giovanissimi, ventenni o giù di lì, magari gli stessi che poi fanno la fila per comprare una sneaker del tutto insostenibile di Lidl, ma si sa che le contraddizioni sono parte integrante della giovane età.

Crediamo che nessuna parola, nessuna questione, nessun argomento sia mai stato dibattuto negli ultimi anni più della sostenibilità: le si dedicano convegni, incontri, decaloghi, impegni transnazionali. Ma anche molto, molto meno di questo: un piccolo risparmio di carta, mezzo grammo di cotone “organic” o “biologico” nella composizione di una t shirt, ed ecco che l’ufficio comunicazione dirama il comunicato “sull’impegno per la sostenibilità” dell’azienda X e il “committment for the planet” (l’inglese funziona sempre molto) della multinazionale Y. Le patenti di impegno verde vero o presunto sono così diffuse che ne è nato un neologismo, il “greenwashing”. Il lavaggio verde. Qualche settimana fa, il Financial Times sosteneva che negli ultimi quattro anni, nel Regno Unito, il numero di abiti descritti come “sostenibili” sia quadruplicato, insieme con le definizioni di “conscious”, “vegan” e del prefisso “eco”. Non sappiamo quali parametri abbia usato il quotidiano inglese per fornire questa cifra: però, inserendo l’aggettivo “sostenibile” nel motore di ricerca di una delle nostre caselle di posta, quella dove riceviamo una media di 150 messaggi di lavoro al giorno, il computo è stato pari a 247 solo negli ultimi tre mesi. I titoli sono sostanzialmente interscambiabili, come peraltro i testi.

 

Gli uffici di pubbliche relazioni più abili, però sembrano aver capito il segreto del greenwashing più credibile: lanciare grandi propositi, ma a lunghissima scadenza. Il più efficace ci pare quello di un notissimo marchio di intimo pop, che tutti sanno produrre qualunque cosa a bassissimo costo nei paesi dell’est asiatico ed europeo. “Il percorso sostenibile di XXX”, strilla la mail, prefigurando un cambio nel modello produttivo che sarebbe comunque impossibile, a meno di non voler cambiare posizionamento, prezzi, brand, ragion d’essere, insomma azienda. Infatti, la sostenibilità sbandierata non riguarda il prodotto in sé, bensì il progressivo passaggio alle luci al led nelle catene produttive e nei negozi. Cosa saggia e giusta, naturalmente: sappiamo tutti quanto sia dannoso l’inquinamento luminoso, e quanta energia consumi; peccato che questo passaggio avverrà entro il 2024, mentre tutto il resto – prodotti, logistica, distribuzione, packaging - resterà lo stesso. Anzi, no: entro il 2025, dice la stessa mail “il 50 per cento degli imballaggi sarà fatto di plastica riciclata, con lo scopo di arrivare al cento per cento nel 2030”. Fantastico, qualcuno si ricordi di andare a controllare fra dieci anni.


E’ vero che nessun processo industriale si può compiere nel giro di una stagione, non è una nuova collezione di moda, e la conversione di un modello che in buona sostanza viene affinato da duecento anni ne richiederà, come minimo, una ventina, e molto impegnativi. Nel frattempo, però, si comunica a più non posso. Qualche mese fa, la paladina dell’ecologia modaiola Stella McCartney disse, desolata, di non sapere “quasi più che cosa significasse la parola sostenibilità”; ma siamo desolati anche noi nei suoi riguardi. Solo di recente, infatti, l’associazione italiana dei conciatori, Unic, ha vinto in parlamento la battaglia per l’abolizione della definizione di “eco-pelle”, grazie alla quale, per decenni, hanno prosperato spacciatori di scarpe in plastica o derivati variamente chimici, Stella compresa, che venivano vendute come “ecoscarpe”, lasciando intendere benefici che in realtà non c’erano. Anzi. Ultimamente le pellicce godono di pessima fama e il recente sterminio di visoni attaccati dal Covid nel Nord italia non ne ha migliorato le sorti ma, volessimo dirla tutta, la pelliccia naturale è infinitamente più sostenibile dei tessuti che avvolgono certi piumini, non fosse altro perché si decompone facilmente; il cuoio, prodotto di lavorazione dei gropponi, è addirittura riciclo di scarti alimentari.

 

Certo, si tratta di scarti che potremmo non creare; potremmo smettere tutti di mangiare carne, contribuendo ad abbattere uno dei gas più letali per il pianeta che è quello prodotto dalla ruminazione dei bovini, ma andatelo a dire in Texas o anche solo in Emilia Romagna. Le fibre riciclate, come il nylon, un tempo una rarità, ormai si possono trovare nelle collezioni di H&M come di Prada (quest’ultima, anzi, sta aumentando di continuo la percentuale di tessuti di riciclo nei propri prodotti); certo, costano un po’ di più, necessitano di spiegazioni e di condivisione. Vengono acquistate? Ufficialmente sì. Poi assistiamo alle file chilometriche davanti allo store di Primark nei giorni della pandemia. Super-brand come Balenciaga, Off White, Burberry si fanno un punto d’onore di raccontare i progressi “environmental” delle loro catene industriali e delle loro filiere. Tutto perfetto. A parte l’evidenza che la moda, come ogni altra attività industriale (e perfino umana) semplicemente non è sostenibile. Nulla è davvero sostenibile per il pianeta.

 

Per spiegarci meglio: il pianeta di suo sarebbe sostenibilissimo, è il nostro intervento a non esserlo. Facciamo un esempio che ci riguarda da vicino. Pare che la pianura padana flagellata dal coronavirus per ragioni non chiarissime ma che iniziamo a sospettare sia visibile dallo spazio per la sua incredibile densità luminosa. Dovremmo spegnere un po’ di luci. Ma, come per le mandrie in Texas, andatelo a dire ai milioni di persone che aspettano solo di tornare a festeggiare fino alle quattro del mattino e credono che sostenibilità sia organizzare i sacchi della raccolta differenziata lavando il vasetto dello yogurt. Per carità, anche quella micro-attività quotidiana contribuisce a mantenere “il nostro unico pianeta” sano. Ma anche noi che stiamo scrivendo questo articolo a tarda sera, senza rispettare il ciclo del sole, contribuiamo all’inquinamento atmosferico. Ecco, la moda è tutto questo, in peggio. Non soltanto non è sostenibile, ma lo è sempre meno: l’ultimo report diffuso dal Summit di Copenhagen e Boston Consulting Group ha evidenziato che nel 2019 l’impegno delle aziende nella sostenibilità tutto incluso, cioè compreso l’equo salario per i lavoratori dei paesi in via di sviluppo e nella riduzione del carbon footprint, l’impronta ecologica, è diminuito del 30 per cento rispetto all’anno precedente. E’ diminuito anche per un motivo: perché è aumentata la produzione. Da oggi al 2030 dovrebbe aumentare ancora dell’81 per cento.

Allora, non vogliamo farvela lunga, ma una cosa vogliamo dirvela: la sostenibilità siamo (anche) noi. Le aziende rispondono a una domanda di mercato. Certo, la stimolano anche, ma se non ci fossero clienti in continuo aumento, ridurrebbero la produzione: chiediamo più carne, più vestiti, più luce, più energia. La sostenibilità siamo noi. Dovete, dobbiamo consumare meno. Anche meglio, magari, ma questo è un altro discorso. Intanto, è arrivato il momento di contenerci nelle spese; il che, in tempi di crisi, dovrebbe venirci anche facile.

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