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Il Covid (forse) si avvia a scomparire e noi non sapremo cosa metterci

C’è voglia di cambiare tutto. A partire dal guardaroba (tacchi alti!) e da noi stessi. Milano prepara dal 23 febbraio al 1 marzo una grande fashion week

Il Covid (forse) si avvia a scomparire e noi non sapremo cosa metterci

Come ci vestiremo per la prima serata del vero liberi tutti, sperabilmente fra cinque-sei mesi, quando avremo raggiunto un'immunità di gregge accettabile? Che cosa faremo, come festeggeremo? Sembra una domanda superficiale, quando il bollettino dei caduti quotidiani sul fronte del Covid supera ancora i quattrocento casi al giorno solo in Italia, eppure la sento serpeggiare ovunque, e non solo in Italia.

Oltre ai moniti alla prudenza, oltre alla contrizione continuata ed effettiva che ci accompagna da un anno, quello spirito di auto-colpevolizzazione che il cattolicesimo-giudaico in cui siamo nati continua a imporci come unico possibile per non essere tacciati di indifferenza, di malanimo, di superficialità o di pura idiozia.

 

Altrove, cioè nelle aree geografico-culturali dove il peso del peccato originale viene temperato da quello delle attività svolte in vita, compreso il successo personale, l'atteggiamento verso chi guarda con speranza a un futuro di festeggiamenti post-Covid modello istantanee post-belliche di Robert Capa, cioè baci per la strada fra sconosciuti e fuochi di artificio, è meno severo. Due giorni fa, anzi, il quotidiano inglese The Guardian vi ha costruito attorno un piccolo reportage, mentre un paio di siti americani, evidentemente ringalluzziti dalla presidenza Biden e da quell'aria di fresco e di nuovo che torna a spirare su Washington, hanno ripreso a consigliare una rinfrescatina agli armadi e non lo fanno certamente per aiutare la periclitante industria della moda.

“Che cosa ti metterai quando tutto sarà finito” è l'altra faccia dell’ “andrà tutto bene”. Non è andato affatto tutto bene, ormai lo sappiamo e va ancora discretamente male. Ma pur continuando a seguire attentamente le regole di prevenzione e facendo tre miseri conti sulla distribuzione e inoculazione dei vaccini (nel mio caso non sono abbastanza anziana o malata da poter contare nel primo trimestre, e nemmeno così giovane ed esposta al virus da poter sperare almeno nella somministrazione della formula Astra Zeneca) ho comunque iniziato a guardare oltre la fine del tunnel.

 

E oltre la fine del tunnel ci sono io, con tantissima altra gente, che ballo, indossando le scarpe con i tacchi più alti che il mio guardaroba mi offre. Anzi, quelle nuove che mi comprerò per l'occasione. Qualche settimana fa sono passata da Milano, dove da molti mesi risiedo il meno possibile ma dove conservo il grosso del mio guardaroba; ho osservato muta tutti i capi da grande riunione-sfilata-viaggio-serata che avevo acquistato fra dicembre e gennaio 2019-2020 e che non ho mai indossato e mi sono detta che non li indosserò ancora per qualche anno. Li riporrò in attesa che si siano dissolte le associazioni negative che mi suscitano. Vorrei evitare di rievocare costantemente la fatica abnorme, fisica e psicologica, del primo lockdown; perfino il lungo, e a tratti positivo si intende, rimuginare su me stessa, le giornate intere trascorse al computer a scrivere, insegnare, parlare con amici, con mia figlia, con mia madre, tutto dalla stessa scrivania e cercando di ricostruire la realtà da dietro le finestre sostanzialmente sbarrate e raccontarla, come il vagabondo delle stelle di Jack London.

 

Girando questa stessa domanda alle amiche - la regista Rai, la grande pr di lifestyle, la responsabile risorse umane, la collega de La7, a Roma, Firenze, Napoli, Milano - ho scoperto che il rifiuto per quanto hanno o non hanno indossato in questo ultimo anno è un sentimento diffuso, diciamo una reazione molto simile a quella che ci accompagna nei postumi del parto: pur adorando il nostro bambino, (esattamente come non abbiamo vissuto solo negativamente questo lungo periodo: per tante di noi, me compresa, è stato ed è ancora straordinariamente produttivo), per un po' di tempo non possiamo nemmeno immaginare di avvolgerci nuovamente negli stessi cappotti, di infilarci nelle stesse scarpe e le stesse maglie che ci hanno accompagnato lungo la gravidanza. Abbiamo bisogno di uno iato, di vederci addosso cose nuove per vedere nuove noi stesse.

 

Vogliamo svettare e ballare su un paio di tacchi. Possibilmente rossi, oppure color oro, comunque alti, come dice Emanuela Romano che da decenni sui tacchi guida le troupe televisive, correndo a verificare che l'inquadratura sia proprio quella che vuole, e che solo da qualche giorno ha ricominciato a viaggiare un po' per raccontare l'Italia nel suo modo elegante. Sono certa che stia per finire il periodo della tuta casalinga, anche bella, anche quella di cashmere che ho consigliato per mesi insieme con la doccia quotidiana e la tripla spazzolata ai capelli, per darci tutta una parvenza di normalità nelle lunghissime giornate in smart working (“io guai. Sempre anche un filo truccata”, precisa la comunicatrice Antonella Zivillica che non sentiamo e non vediamo da mesi se non via whatsapp perché gli Zoom-Zum-Zum quotidiani non le danno tregua).

La pandemia non è ancora finita ma da molti, moltissimi segnali è evidente che si stia esaurendo in una gran voglia di riscossa, anche estetica. Perfino al netto delle uscite al ristorante, perfino senza voler calcolare lo choc a cui porterà, salvo prolungamenti, lo sblocco dei licenziamenti.

 

C’è voglia di godersela, anche solo un po', anche solo per un aperitivo: sono scappata da Milano ancora una volta per evitare l'euforia da zona gialla, ma comprendo la voglia di assembrarsi. Capisco la necessità di una vita di ordinaria gioia. Stanno implodendo i nostri ragazzi con la scuola in presenza al cinquanta per cento e solo da poche settimane. Stiamo implodendo noi, e chisseneimporta se la peste manzoniana portò centinaia di migliaia di persone e chiudersi in casa per quasi due anni, esempio che tutti ci sventolano sotto il naso di continuo.

Era una vita diversa. Per tutti. Con necessità diverse, diversi orizzonti, diverse reazioni perfino di fronte all'ineluttabilità della morte. La vita valeva molto di meno, durava moltissimo di meno. Sono passati quattro secoli, e non invano, se è vero che la campagna vaccinale è partita nella stragrande maggioranza dei paesi dalle categorie più deboli: quattro secoli fa queste stesse persone non sarebbero state curate affatto. Dunque. Dunque ci sentiamo più speranzosi, e abbiamo voglia di ridere e di cambiare tutto. La penitenza sta finendo, almeno nella nostra percezione.

 

Le sfilate della haute couture appena terminate, pur nella loro virtualità di presentazione, sono state un trionfo di accessori dorati. A Milano, pochi giorni fa, la Camera nazionale della Moda ha presentato il Calendario di una Fashion Week che in sette giorni, dal 23 febbraio al primo marzo, presenterà sessantuno sfilate, di cui quindici fisiche, e cinquantasette fra presentazioni e appuntamenti ad hoc. Sarà forse la più ricca fashion week degli ultimi cinque anni, grazia a un numero di “new names”, cioè di stilisti emergenti, davvero importante (che poi riescano ad emergere è un'altra questione e come ben sappiamo le dinamiche dell’”emersione” sono sempre le stesse, cioè un supporter finanziario importante, un piano di comunicazione articolato e il sostegno dei buyer, ma il tentativo c’è). Si presenterà la moda del prossimo inverno e, se vogliamo basarci sulle indicazioni date qualche settimana fa dalle collezioni uomo, oltre a un ammorbidimento e a una maggiore linearità di forme non vedremo certo abiti punitivi. Più avvolgenti, magari, più confortanti (anche per seguire la nuova tendenza alla “positività del corpo”), ma di sicuro colorati, allegri, “vitaminici”, per usare un termine che piace tanto alle colleghe dei femminili quando vogliono sintetizzare l'uso di colori squillanti e/o acidi in una sola definizione.

 

Fateci caso, uno dei capi più fotografati delle ultime collezioni di haute couture è l'abito di Valentino verde acido, lineare ma con gonna svasata, molto flattering, cioè abbellente, realizzato in tessuto tecnico: tecnicamente era una “teletta”, cioè una prova.  È diventato l'abito che tutte desiderano. Insieme con quello, o quelli, dei sogni post-pandemici. La pr Adele Bandera immagina il suo stratificato “perché non sappiamo ancora quale stagione sarà”, ma comunque di seta, morbido, nero, da accompagnare a sandali che saranno assolutamente nuovi. La collega Cinzia Malvini, che abita nel centro storico di Roma, si affaccerà invece per strada in ghingheri, sperando di non vederla vuota, silenziosa e desolata come da un anno a questa parte. Tutte sfoggeranno qualcosa di nuovo, come a un matrimonio. A un nuovo patto con la vita.

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