
Terminate le sfilate delle collezioni inverno 2021-2022, ho fatto quel che faccio a ogni cambio di stagione da quando ero adolescente, cioè mi sono recata all'edicola e ho acquistato una decina di testate di moda italiane e internazionali, oltre a quella con cui collaboro, per rinfrescare la memoria. Non occupandomi più da circa quindici anni di “guide alla stagione” e “dossier sfilate”, tendo a dimenticare la maggior parte di quello che ho visto sfilare sei mesi prima (per essere sincera non erano la mia passione nemmeno quando dirigevo testate femminili: le trovavo sempre troppo poco selettive, cioè inutili se non per compiacere gli inserzionisti pubblicitari, anche perché la “grande tendenza” di stagione non esiste più da molti anni, sempre sia mai esistita). Tranne per qualche eccezione, cioè per le vere innovazioni, le collezioni che esprimono un punto di vista sul mondo e che per fortuna non mancano mai, tendo a rimuovere tutto il resto, cioè le ripetizioni, le banalità, le lunghe gallerie di vestituzzi di jersey stampato e maglie a trecce che io, come tutti, vedo apparire un anno dopo l'altro, a dimostrazione che le vere trasformazioni nella moda seguono i ritmi che avevano duecento anni fa, cioè cambiano per decennio e anche con intervalli più lunghi.
Della moda mi piace la dimensione sociale o economica, di cui i vestiti sono un derivato e dunque, e per arrivare al punto, non avevo ancora terminato di sfogliare la prima rivista che senza alcuno sforzo e senza ragione apparente mi era tornato alla mente un viaggio in Grecia del 1991 dove avevo scuffiato con il catamarano rischiando di andare alla deriva, e poi in rapida successione una festa molto divertente in Sicilia, il passaggio dal Giornale a Italia Oggi del 1990, che comportava un cambio di testata ma non di isolato perché all'epoca le due redazioni si affacciavano l'una nell'altra e insomma tutta una serie di ricordi che si affollavano nella mente mentre i miei occhi fissavano alternativamente una giacca impermeabile in nylon, una maglia a rete, una giacca oversize di Versace su minigonna. Era come se a ogni doppia pagina aprissi un'anta o un cassetto del vestiaire “d'archivio” che tengo in una certa stanza della casa del lago. Ed era, di fatto, così: stavo rivedendo una quantità di vestiti che già possedevo, indossati da ragazze che avevano la mia età allora, anzi certamente qualche anno di meno.
Le differenze erano minime. Fatto salvo il diverso peso dei tessuti, che adesso sono tendenzialmente più leggeri ma non necessariamente migliori, una rimodulazione neanche eccessiva del volume della spalla e del giromanica, rieccomi back to the future, con il rossetto nude ma di due tonalità modello Posh Spice, da molti anni Victoria Beckham. Mentre sfogliavo e sfogliavo, mi sono ricordata che in effetti avevo notato già a settembre il ritorno del tailleur giacca-bermuda dei miei venticinque anni, l'orgoglio con cui avevo acquistato quel completo in lino blu da Emporio Armani che avevo indossato per la mia prima intervista alla signora Wanda Ferragamo, arrivando fradicia a Palazzo Spini Feroni, a Firenze, sotto un indimenticabile acquazzone. Anno 1990. Il potere evocatore dei vestiti è formidabile, la loro capacità di resuscitare emozioni sopite certamente superiore al loro valore e al loro ammortamento, ormai abbondantemente concluso.
Ma ero, anzi siamo sicure, noi che abbiamo già indossato quella moda, di volerla sfoggiare di nuovo? Addirittura e magari di riacquistarla, per evitare che quei capi che già possediamo, addosso a noi non sembrino affatto una efficacissima e sostenibile scelta vintage, ma semplicemente i nostri abiti vecchi? E poi quanto è noioso, e pure imbarazzante, sentire di aver concluso un ciclo e di doverlo rivivere, come in un samsara del guardaroba? Per san Giuseppe, la festa del papà, Fabiana Balestra ha postato su Facebook una sua foto con il padre, Renato, databile alla seconda metà degli Anni Ottanta (anzi, le ho telefonato e ha confermato: 1986).
Indossa un abito nero monospalla con un gran fiocco fucsia obliquo, sontuoso ma non eccessivo, insomma di proporzioni perfette. Lo stesso abito, ma firmato Rotate, il collettivo di Birger Christensen che ci sembra scopiazzare qualunque cosa sia stata prodotta fra il 1984 e il 1992, si trova a pagina 92 di Elle UK, in versione decisamente meno elegante. Questo per dire che, considerato l'aumento delle aspettative medie di vita e nella speranza di non schiattare di Covid, se dovesse andarmi tutto bene rischio di rivedere questa roba ancora una volta, fra trent'anni. Potrei essere abbastanza rimbecillita da non rendermene nemmeno conto, e di sicuro a 85 anni non avrò voglia di andarmene in giro con fiocchi rosa fucsia e maglie di rete, ma credo che uno sforzino in più, la moda dei “talenti” e dei “designer emergenti” potrebbe farla. Per non fare morire di noia noi che, oltre all'esperienza, abbiamo una memoria.