Il medico scrittore

La mortalità da Covid resta elevata. Che succede in terapia intensiva?

Ecco la descrizione clinica del calvario di chi non riesce a vincere la battaglia contro il virus prima dell’intubazione. Sino al trapianto di polmone

La mortalità da Covid resta elevata. Che succede in terapia intensiva?

La mortalità da Covid resta stabilmente elevata nelle ultime settimane e ci spinge a raccontare cosa succede nelle terapie intensive. Ci vuole fatica e pazienza per capire e spiegarlo: le principali minacce nella cura dei pazienti con il coronavirus sono la polmonite bilaterale e la sindrome da distress respiratorio acuto (Ards), per le quali occorre la ventilazione meccanica e, in condizioni critiche,  l'intubazione. Quest'ultima è una procedura che consente l'assistenza ventilatoria in pazienti sedati (anestetizzati), ventilati meccanicamente; può avere una durata varia. Si definisce "intubazione prolungata" quando supera le 48 ore. La presenza di tubi per via orale o nasotracheali - a stretto contatto con le strutture delle vie aeree - può causare lesioni della mucosa, e in caso di intubazioni a lungo termine: lesioni nella cavità orale, nella faringe e nella laringe. La prognosi peggiora con la durata della degenza, durante la quale i malati possono subìre altre infezioni delle vie respiratorie. Queste, se contratte da un individuo con una funzionalità polmonare già compromessa dal Covid-19, possono risultare mortali. Altre complicanze legate ai lunghi ricoveri in terapia intensiva sono rappresentate dallo pneumotorace (Pnx) e dall'embolia polmonare.

 

Lo Pnx, con conseguente rischio di collasso polmonare, può essere spontaneo, post-traumatico o secondario a patologie; esso significa presenza di aria nello spazio pleurico (lo spazio tra le pleure che rivestono il polmone e la parete interna della gabbia toracica). Di solito, lo pneumotorace deriva da una pleura fragile a causa della malattia. La pressione positiva generata dal ventilatore necessario a portare ossigeno nei polmoni può contribuire a iniziare o peggiorare il quadro dello Pnx. I coaguli di sangue, di solito dalle gambe, corrono come emboli fino al cuore e si vanno poi a posizionarsi nei rami dell'arteria polmonare, fermando l'afflusso di sangue: in questi casi si parla di embolia polmonare. Le unità operative di terapia intensiva hanno le loro pecurialità. I pazienti anziani e fragili necessitano di un grande sforzo organizzativo e strumentale: nelle patologie polmonari che in fase pre-Covid arrivavano in terapia intensiva il 50 per cento dei casi  poteva superare lo stadio acuto con una ventilazione non invasiva (con casco respiratorio e maschera full face); al contrario, la maggioranza dei malati Covid-19 non risponde a questa metodica e deve essere pertanto intubata (metodica invasiva).

 

Sostenere in vita un paziente in terapia intensiva, Covid-19 o meno, richiede notevoli risorse. I pazienti sono controllati in continuo dagli infermieri tramite i monitor che mostrano i parametri vitali; infine, oltre alla ventilazione, ai cateteri, e all'eventuale nutrizione parenterale (cioè fatta in vena), ci sono i farmaci, che sono infusi nel paziente con pompe attaccate a cateteri venosi a più aperture (lumi). L'impianto di cateteri venosi periferici e centrali è una delle cause principali di infezioni nosocomiali, che comporta un aumento della morbilità. Ad un soggetto “fragile” possono essere infusi anche 20 farmaci diversi. Operare su un paziente fragile, attaccato a diverse macchine, è difficoltoso. Un turno di una terapia intensiva con 10 posti letto, prevede 2 medici e 6 infermieri.

 

Già in era pre-Covid, questi reparti lavoravano quasi a pieno regime; poi il Covid ha accentuato l'impegno professionale. In questi mesi di pandemia in terapia intensiva, si è avuto una mortalità più elevata, circa doppia rispetto al solito. Secondo la Siaarti (la Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) il problema è la mancanza di personale: in Italia non ci sono abbastanza medici-anestesisti disponibili, in quanto il numero chiuso alla specialità ne ha prodotti pochi. Qui dobbiamo rilevare che certo non si può fare una buona formazione dei medici studenti specializzandi senza programmarne il numero in rapporto alle strutture, ma tant’è.

 

Per fortuna, la maggioranza dei malati di Covid-19 sviluppa sintomi lievi, che possono essere tenuti sotto controllo a domicilio. I pazienti Covid che richiedono la  terapia intensiva rappresentano una classe ad alta mortalità,  anche per la complessità delle loro malattie già esistenti (comorbilità) e più evidenti negli anziani. Fra gli ultraottantenni la mortalità arriverebbe oltre l'80%.  Tuttavia, ultimamente, si è preso atto che l'età media si sta un pò abbassando e risultano  ricoverati anche pazienti più giovani. Il trasferimento in terapia intensiva s'impone qualora ci sono dei disturbi dell'ossigenazione e del controllo dei gas ematici tali da non risolversi con metodiche non invasivi come l'ossigenoterapia a bassi e ad alti flussi.

 

Queste metodiche sono applicate anche nelle unità operative di malattie infettive o sub-intensive; ma quando non riescono il paziente deve essere, appunto, veicolato alla terapia intensiva attraverso alcuni parametri: rapporto tra ossigenazione del sangue rispetto alla concentrazione di ossigeno somministrata, valori ematici di anidride carbonica, come pure  i sintomi (tachipnea e dispnea) oltre alla valutazione dei referti (rx, tac.eco). Il trattamento farmacologico di questi pazienti è in continua evoluzione. Al momento i farmaci in uso sono il Cortisone e l'Eparina a basso peso molecolare. Oggi si parla molto di nuovi anticorpi monoclonali (come quelli usati da Trump) anche di produzione italiana. Mentre, l'utilizzo del Tocilizumab (un anticorpo monoclonale già noto)  dopo un inizio promettente, non ha documentato alcun beneficio (soprattutto nei pazienti ricoverati in terapia intensiva) per cui l'Aifa ha limitato il suo utilizzo a studi sperimentali.

 

La terapia antivirale con Lopinavir/Idrossiclorochina e Darunavir/Cobicistat, Remdesevir,  non ha registrato veri benefici in larghe fasce di malati. Purtroppo, i pazienti che hanno bisogno di cure intensive e restano per lungo tempo in ospedale sono anche a maggior rischio di acquisire infezioni ospedaliere. Oltre ai  germi multiresistenti si verifica anche un aumento di infezioni fungine (specie da aspergillo) e infezioni virali non-covid (patologie virali tipo infezioni da citomegalovirus e infezioni da Epstein Barr). Comunque, non dobbiamo dimenticare che al momento una terapia efficace contro il virus ancora non esiste.

 

Uno studio italiano, capofila il Sant'Orsola di Bologna, ha descritto il meccanismo responsabile della elevata mortalità in terapia intensiva dei pazienti con Covid-19. Pubblicato su "Lancet respiratory medicine", lo studio dimostra che il virus può danneggiare entrambe le componenti del polmone: gli alveoli (le unità del polmone che prendono l'ossigeno e cedono l'anidride carbonica) e i capillari (i vasi sanguigni dove avviene lo scambio tra anidride carbonica e ossigeno). Quando il virus fa questi danni,  muore quasi il 60% dei pazienti. 

 

Il  fenotipo (ossia l'insieme dei caratteri fisici di un individuo, determinati sia dal patrimonio genetico sia dall'azione ambientale, l'alter ego del genotipo) dei pazienti in cui il virus danneggia sia gli alveoli che i capillari (doppio danno) è facilmente identificabile attraverso la misura di un parametro di funzionalità polmonare (la distendibilità del polmone 40; valore normale 100) e di un parametro ematochimico (il d-dimero > 1800; valore normale 10). Questi risultati hanno importanti derivazioni sia per le cure attualmente disponibili che per i futuri studi su nuove strategie terapeutiche per i pazienti con Covid-19. Un altro gruppo di studiosi internazionali, ha dimostrato che questi malati hanno un rischio doppio di sviluppare disfunzione cerebrale acuta (delirio o coma) rispetto ai pazienti ricoverati nello stesso reparto ma senza Covid. Secondo gli autori, questo rischio potrebbe essere evitato in buona parte.

 

Il numero dei ricoveri nelle terapie intensive è uno dei parametri utilizzati per determinare il colore delle regioni ed anche una sorta di finestra  per osservare l'andamento della pandemia. Di recente, come già accaduto nel 2020, l'indice di mortalità registrato nelle terapie intensive è molto preoccupante, poichè si è attestato da diverse settimane intorno ai 400-500 casi al giorno. Come è stato osservato in qualche ospedale della Campania e da varie parti d'Italia, le cifre della mortalità da terapia intensiva raggiungono anche il 95%. In questi casi 9 pazienti su 10 poi muoiono trasformando molte terapie intensive in una “anticamera mortuaria”. In altre zone d'Italia si captano percentuali di mortalità dei pazienti Covid in terapia intensiva sul 50%. Purtroppo, anche volendo fare una media, il numero di decessi è molto alto.

 

II mondo scientifico dovrebbe fare una riflessione sia sulle terapie intensive, sia su quelle subintensive: è importante capire se un ricovero  precoce nelle prime 72/96 ore dopo un insuccesso al trattamento subintensivo respiratorio - in un malato portatore  di altre patologie - possa essere un segno premonitore di una riduzione di mortalità (come quando arrivano soggetti “supercritici” con “estrema severità” dell'insufficienza respiratoria, dove ad altri parametri vitali non verrebbe data la giusta importanza). In tal modo, si corre il  rischio di non affidare alle cure intensive altri pazienti che – in era pre-Covid – sarebbero stati presi da prima. In  breve: accedere in terapia intensiva dopo due o tre settimane di subintensiva potrebbe ridurre, soprattutto nei pazienti con altre disfunzioni d'organo, le possibilità di sopravvivenza? Un altro studio recente ha concluso che “un inadeguato apporto nutrizionale durante il ricovero in terapia intensiva è collegato ad un maggiore tasso di mortalità per i pazienti affetti da Covid-19”. In più, che l'obesità è associata ad un più alto rischio di mortalità, o, quantomeno, ad un significativo ritardo nello svezzamento dalla ventilazione artificiale invasiva.

 

Il 5 per cento delle persone contagiate ha bisogno di cure intensive in ospedale. La funzionalità respiratoria è il parametro da monitorare per capire in quali casi il paziente richieda il ricovero in terapia intensiva. La fase critica per l'ingresso è rappresentata dal terzo stadio del Covid-19: con febbre e tosse, fame d'aria, e dall'incremento della frequenza cardiaca (con cui l'organismo compensa il deficit nell'ossigenazione a livello polmonare). È questo l'idendikit di un paziente con una sindrome da distress respiratorio, più spesso indicata come insufficienza respiratoria acuta.  In questa fase, l'ossigenoterapia è necessaria.

 

Nei reparti di pneumologia, medicina e malattie infettive i pazienti (con un'insufficienza respiratoria di grado lieve o moderato) possono essere assistiti attraverso l'erogazione di ossigeno mediante le maschere, le cannule nasali, la Cpap (la stessa che viene utilizzata nel trattamento delle apnee ostruttive del sonno) e il casco. Proprio quest'ultimo sembra il dispositivo più efficace per prevenire il ricorso a tecniche invasive. Il casco consente trattamenti con poche interruzioni, può erogare ossigeno a pressioni alte, e sembrerebbe essere una caratteristica fondamentale per evitare l'intubazione. Quando non si è più in grado di rifornire gli scambi gassosi ricorrendo all'ossigenazione con metodiche non invasive, il paziente deve essere intubato. Il passaggio al grado successivo viene definito dopo aver valutato i vari parametri, le condizioni cliniche del malato e i referti radiologici. Una volta intubato, il paziente riceve ossigeno direttamente all'interno dei polmoni e viene supportato nell'eliminazione dell'anidride carbonica; il tutto mentre è sedato (a riposo). 

 

Il ventilatore rientra tra i dispositivi salvavita, ed è concepito per integrare o sostituire la respirazione naturale introducendo aria direttamente nei polmoni e permettendo l'espirazione. L'aria viene insufflata nella gabbia toracica attraverso strumenti che sono appannaggio della cosiddetta “intubazione”. Il principale ausilio è il tubo endotracheale, che viene inserito nella bocca del paziente e che passa attraversa la trachea. Segna il percorso per incanalare l'aria direttamente nei polmoni. L'intubazione si pratica sempre dopo aver addormentato il paziente che non si accorge dell'inserimento e della rimozione del tubo, considerata una procedura invasiva.

 

Esiste anche il tubo per tracheotomia, ovvero una cannula che viene immessa direttamente in trachea e fatta passare attraverso un taglio all’altezza del collo, praticata in determinate condizioni di emergenza. La ventilazione polmonare non è esente da rischi, dato che può determinare pneumotorace (Pnx), e altri danni agli alveoli, più volte fatali. Qualora la gravità del quadro non si attenui, in terapia intensiva il paziente può essere pronato (posto a pancia in giù) e per un tempo compreso tra 12 e 16 ore al giorno. Il cambio della posizione respiratoria può permettere una migliore distribuzione tra le zone aerate del polmone e il microcircolo/arterioso e venoso : in modo da agevolare l'ossigenazione del sangue.

 

Se le condizioni del malato dovessero  migliorare, dopo un periodo di tempo compreso tra 7 e 10 giorni, si prova a dare il via allo svezzamento. Si rimuove il tubo orotracheale, si aiuta il malato con un supporto non invasivo (casco o Cpap) e lo si trasferisce in un altra unità operativa per monitorare il decorso della malattia. Se al contrario non si registrano ulteriori progressi, si procede con la tracheotomia. Eventuali  procedure estreme nei malati troppo gravi: 1) il ricorso alla circolazione extracorporea (Ecmo), in cui il corpo è tenuto a riposo e si cerca di migliorare le condizioni del paziente; 2) ancora a livello sperimentale, ma con risultati incoraggianti, è da considerare anche l'ipotesi di ricorrere al trapianto di polmone. 

COPYRIGHT THEITALIANTIMES.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA