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L’industria della moda in fermento

Zegna si allea con Andrea Bonomi ma mantiene la maggioranza.

L’obiettivo è la quotazione a Wall Street. Etro invece cede il 60 per cento a Bernard Arnault. Mentre Armani non cede alle lusinghe di Jaki Elkann

Zegna si allea con Andrea Bonomi ma mantiene la maggioranza.

Nel corso di un week end che prometteva finalmente tranquillità dopo una stagione convulsa di presentazioni, mentre una quota piuttosto significativa di giornalisti e buyer festeggiava a Taormina la nuova edizione dei premi Taomoda, Etro ha ceduto la maggioranza al fondo del gruppo Lvmh LCatterton e Zegna ha annunciato la quotazione in borsa grazie a una fusione con la SPAC di Andrea Bonomi Investindustrial Acquisition Corp.

 

Entrambe puntano a rafforzarsi, in modo diverso o, per meglio dire, con quote specchianti di impegno azionario: Gerolamo “Gimmo” Etro e la famiglia hanno conservato il controllo del 40 per cento delle quote, insomma hanno ceduto la maggioranza al fondo di Bernard Arnault; gli Zegna hanno conservato il controllo, cedendo il 40.

Il primo accordo era atteso dal mese di aprile; il secondo ha invece colto quasi tutti di sorpresa, benché da più parti si iniziasse a domandarsi per quale motivo Gildo Zegna continuasse ad acquistare piccole aziende iper-specializzate nel settore del tessile-laniero, oltre alla volontà dichiarata di creare un polo del tessile, che ci sembrava una bellissima cosa essendo appunto il tessile all’origine non solo del sistema industriale italiano, ma anche di grandi storie buone dell’imprenditoria del nord e del sud, da Ferdinando IV con le sete di san Leucio ai Crespi con quel primo villaggio operaio affiancato a scuole e servizi, alla “città dell’angora” degli Spagnoli fino, appunto, agli Zegna con l’oasi naturalistica ai piedi del Monte Rosa, ogni epoca storica un diverso obiettivo solidale. 

 

Adesso sappiamo che Zegna, grazie al supporto di Investindustrial Acquisition Corp. (“IIAC”), Spac di Andrea Bonomi, intende quotarsi alla Borsa di New York entro l’anno, e che la sede resterà a Milano.

Le due mosse, a cui si potrebbe aggiungere il tentativo di Jaki Elkann di stringere un accordo con Giorgio Armani, dando vita al molto vagheggiato polo del lusso italiano in cui anche suo nonno investì tempo e denaro (per la cronaca: il signor Armani, che poche settimane fa ha annunciato di aver già raggiunto un accordo successorio con alcuni dei suoi dipendenti, ha lasciato i pourparler con Exor a livello del loro significato letterale), rientrano nello stesso filone e nella stessa strategia di concentrazione che sta riguardando anche l’editoria di moda: due settimane fa, Hearst Italia ha “esodato”, lo scriviamo volutamente in transitivo, circa la metà dei propri dipendenti in Italia, quasi cento dipendenti fra direttori, amministrativi, giornalisti. Gente che farà fatica a ricollocarsi in un settore gravemente in crisi, e che fortunatamente le 56 mensilità di buonuscita aiuterà nella non facile transizione a un nuovo modo di intendere non solo il mestiere, ma anche se stessi. 

 

In Condé Nast è attesa una concentrazione molto simile, tanto che l’altra sera a Taormina Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair, premiato, ha annunciato per l’anno prossimo il varo dell’edizione europea della rivista. Unica. Ci si concentra, si razionalizza, dove si può si taglia, benché con l’obiettivo dichiarato di investire nella crescita o, per meglio dire, in una nuova crescita, con regole e un campo di gioco diverso. Più piccolo, più concentrato, un po’ più attento al bene del proprio paese e al suo recupero di competitività. Oppure talmente grande da non temere alcun genere di competizione.

Chi sta in mezzo è spacciato. Non è solo per il Covid, non è stata solo la pandemia a mettere in evidenza i limiti della globalizzazione e l’elefantiasi di cui soffrivano molte delle nostre imprese: un anno e mezzo di restrizioni hanno, da un lato, insegnato a moltissimi la comodità degli acquisti online, e dall’altro suggerito di prestare maggiore attenzione al proprio artigianato e alle proprie imprese. 

 

Un paio di mesi fa, il Financial Times elencava il numero delle imprese cinesi della moda e del lusso che stanno beneficiando dei dubbi etici della moda europea e americana nei riguardi delle condizioni di lavoro nelle fabbriche del cotone dello Xinjiang: non sono poche, e soprattutto hanno una gran voglia di rifarsi di un ventennio di sudditanza estetica. Si preparano anni di rivoluzioni.

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