È in nome della stabilità politica ed economica che Vladimir Vladimirovic Putin ha consolidato il uso potere negli ultimi venti anni in Russia. Ed è in nome della insicurezza e della instabilità, conseguenza diretta delle sanzioni per la guerra che ha voluto contro l’Ucraina, che adesso il suo potere rischia davvero la parabola discendente.
La Russia, a due giorni dalle sanzioni economiche e finanziarie comminate da Unione Europea e Stati Uniti, che hanno imposto una stretta senza precedenti sul 70 per cento delle attività bancarie russe, è piegata. La Borsa di Mosca è rimasta chiusa e nelle principali Piazze europee i titoli russi sono crollati. La Banca Centrale rischia la paralisi e un numero rilevante di istituti di credito è stato bandito dal sistema di pagamenti internazionali Swift. In più, sono stati confiscati i beni per miliardi di euro degli oligarchi russi in Europa. Gli investitori stanno scappando da Mosca e il pericolo di una crisi di liquidità eccezionale, in grado di mettere in ginocchio il Paese, è più che reale.
Lo spettro della crisi economica degli anni novanta e di quell’annus horribilis - il 1992 - che fece sprofondare il Paese in una delle sue pagine più nere, economicamente e socialmente, aleggia di nuovo sulla popolazione. Che allora pagò un prezzo altissimo per la mancanza di una fase di transizione guidata, che consentisse il passaggio graduale dall’economia socialista a un un’economia di mercato. Inflazione, recessione, pericolo di default tornano ad affacciarsi nella vita di 140 milioni di russi. Putin, l’uomo che aveva promesso loro la stabilità politica a garanzia di quella economica, e che in nome di questo assunto si è fatto strada con ogni mezzo, lecito e illecito, è lui stesso l’artefice del peggio.
L’uomo che da perfetto sconosciuto quale era ai tempi di Boris Eltsin si è prima accreditato come suo successore, poi in venti anni ha fatto di tutto per rimanere in sella, anche quando si è trattato di usare le massime istituzioni secondo la propria convenienza. In nome della sua idea di stabilità il capo del Cremlino ha represso ogni voce dell’opposizione, ha messo i suoi amici alla guida dei colossi energetici, ha soffocato la libertà di stampa, ha esercitato il controllo su potentati di ogni specie, occupato territori, mosso guerre in una progressiva deriva autoritaria, con l’esercito completamente nelle sue mani. E’ sulla potenza militare che ha fatto enormi investimenti, non giustificati da un prodotto interno lordo di poco superiore a quello della Spagna.
I retaggi del vecchio impero zarista albergano in quest’uomo solo al comando. L’invasione dell’Ucraina è stata l’ultima di una lunga serie di prove di forza di Putin, che non solo mostra di essere fuori dalla storia ma anche di aver perso ogni contatto con la realtà. Anche con quella che vive il popolo russo, costretto adesso a fare i conti con una vulnerabilità economico-finanziaria pericolosa, con un isolamento politico dirompente. La guerra contro l’Ucraina ha sollevato persino le reazioni di Paesi tradizionalmente e storicamente neutrali come Svizzera e Svezia, pronti ad aiutare e sostenere la causa di Kiev. Un segnale evidente del timore di tutto l’Occidente per l’irragionevolezza e l’imprevedibilità di un capo di Stato giudicato molto pericoloso.
Dopo i negoziati partiti ieri a Golem al confine bielorusso tra le due delegazioni ucraina e russa, con cui sembrava aprirsi uno spiraglio per la trattativa, oggi una colonna di mezzi militari russi lunga 60 chilometri è alla porte di Kiev. Non c’è nulla di razionale in questo. Putin è ossessionato dai fantasmi del passato convinto di imporre con l’uso della forza la centralità che la Russia ha perso nell’equilibrio mondiale. Ma non si accorge che sta percorrendo un declivio che avvicina la sua uscita di scena. La storia non si volterà indietro solo perché lui lo vuole.