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L’Italia al voto, dopo Meloni c’è solo un altro che gongola: è Conte

Fotografia di un Paese sovranista e populista che vira a destra. Mistero 5S: dove si collocano politicamente? Batosta per Lega e Pd. Letta: Non mi ricandido

L’Italia al voto, dopo Meloni c’è solo un altro che gongola: è Conte

Chi vince e chi perde. La fotografia politica del Paese scattata con le elezioni di ieri non ci consegna solo dati numerici. Il centrodestra vince e vince soprattutto Giorgia Meloni che traina un Cavaliere che risorge e una Lega che il voto lascia tramortita. Ma se la leader di FdI e Silvio Berlusconi hanno da festeggiare – la prima una vittoria indiscutibile, il secondo una ripresa inaspettata – Matteo Salvini si prepara a una resa dei conti interna al Carroccio da cui difficilmente uscirà indenne. L’8,81% segna la disfatta leghista. Di queste proporzioni nessun sondaggio l’aveva prevista e i militanti già insorgono. Si pensa al dopo. Accantonata la lunga leadership salviniana, i papabili sono i due governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. 

 

Nel centrosinistra il grande sconfitto è il Pd. Mai come in questo caso il problema non è solo di numeri: i dem superano, seppure di poco, il risultato del 2018 ma non oltrepassano quota 20%. Di errori ne sono stati fatti parecchi a partire dalle alleanze. Troppo fragili Verdi e Sinistra Italiana, che comunque superano il 3,6%, per dare corpo a un centrosinistra che potesse concorrere con la coalizione avversaria. A pesare anche i nomi spesi in alcuni collegi uninominali che non hanno avuto partita rispetto alla valanga targata centrodestra. Dei collegi uninominali 87 vanno al trio FdI-Lega-FI – solo 11 al centrosinistra. Una debacle. Letta sta già facendo i conti con un partito in subbuglio, le correnti sono pronte a dare battaglia. Persino l’appoggio a Impegno Civico di Luigi Di Maio si è rivelato fallimentare. L’ex ministro degli Esteri è fuori dal Parlamento: battuto nel collegio uninominale Napoli-Fuorigrotta e pure nel proporzionale. Il suo partito si ferma all’1% e, dunque, non supera lo sbarramento previsto dal Rosatellum. Oggi il capo del Nazareno ha annunciato il congresso dei democratici e che non correrà per la segreteria: “La mia leadership”, ha detto, “terminerà non appena ne sarà individuata un’altra”. 

 

La sorpresa sottovalutata un po’ da tutti porta il nome dei Cinque Stelle. Un partito che non ha più nulla a che fare con il vecchio Movimento fondato da Casaleggio e Grillo – quest’ultimo nemmeno ha partecipato alla campagna elettorale – e che si conferma una formazione personalistica. L’ex premier, Giuseppe Conte, ha fatto da catalizzatore del consenso. Quello che stupisce più di altro è che le posizioni spesso ambigue e ondivaghe dell’ex avvocato del popolo non hanno costituito un punto di debolezza.

 

Nelle regioni meridionali il Movimento tiene e rilancia raggiungendo sull’intero territorio nazionale il 15%, un dato su cui fino a sei mesi fa nessuno avrebbe scommesso, nemmeno lo stesso Conte. A cui, peraltro, è riuscito in un colpo solo di sottrarsi da una perenne condizione di dipendenza da Grillo - da oggi il potere del comico genovese si è ridimensionato in maniera sostanziale - e di vedere fuori gioco l’avversario numero uno degli ultimi anni, il ministro di Pomigliano D’Arco. Meglio di così non gli poteva andare. 

 

Risultato deludente, possiamo dirlo, per Carlo Calenda. Il leader di Azione ambiva a percentuali a due cifre, almeno il 10 o il 12%. Si ferma con il suo Terzo Polo al 7,7%, che pure è un risultato ragguardevole essendo la sua prima sfida nazionale. Ha pagato probabilmente l’alleanza con Matteo Renzi che molti simpatizzanti non sono riusciti a mandare giù. Match insoddisfacente anche per Emma Bonino. Più Europa non supera la soglia per far scattare seggi nel proporzionale.   

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