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I grandi delitti della Capitale

“Betty” e le stanze del potere in via de’ Prefetti nella Roma anni ‘80

Paola Vuolo, firma della “nera” del Messaggero, riscrive per noi, nell’estate del Covid, i grandi delitti della Capitale. “Storie di Nera” - Capitolo 2

“Betty” e le stanze del potere in via de’ Prefetti nella Roma anni ‘80

Alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso Mario Pendinelli, allora direttore del Messaggero, affidò a Vincenzo Cerami, uno dei più grandi scrittori contemporanei, nonchè sceneggiatore di Fellini e di Benigni, il racconto dei grandi delitti avvenuti nella capitale nei decenni precedenti. E Vincenzo, con umiltà e passione (tra l’altro, divenne prima praticante e poi giornalista professionista frequentando via del Tritone), li riscrisse e li fece rivivere ai lettori.

 

Nel nostro piccolo, The Italian Times ha deciso di raccontare per questa estate strana, con il virus ancora in agguato e non del tutto individuato nè dai carabinieri e nemmeno dai medici legali e dalla polizia scientifica tra i tanti germi sospetti, i delitti dell’epoca post Cerami. E lo ha fatto chiedendo di riscriverli a chi li ha raccontati in diretta per una vita, cioè a Paola Vuolo, cronista per vocazione e passione poichè la “nera” nel giornalismo dell’era predigitale era la scuola del mestiere giornalistico più puro, della vita senza mediazioni, dei particolari tanto accurati quanto ben scritti, della foto da strappare ai parenti in lacrime. Dal gigantesco stanzone della cronaca al secondo piano dello storico palazzo del Messaggero si muoveva la squadra e partiva la macchina del giornale, con a bordo giornalista e fotografo: a turno con Paola, Rino Barillari il king dei paparazzi, Ermando Di Quinzio, vincitore del premio per la migliore foto dei Mondiali degli anni ’90, Alberto Bandinelli, Ugo Collini, Mario D’Ilio e Ettore D’Aco, e tornavano a qualsiasi ora ma in tempo per l’ultima edizione, con la storia, il contesto, le foto, il mistero che avrebbe appassionato per mesi i lettori e oliato le copie. Paola ha da poco lasciato il Messaggero. (Ade)

 

 

Il lato oscuro della quotidianità

«Gina, ma la senti pure tu sta' puzza? Sembra gas».

«Altroché, Albertina mia, sono almeno tre giorni, viene dall'appartamento della sarda, quella è tutta scema chissà la zozzeria che ha lasciato dentro casa».

«Perché, è partita?»

«Credo di sì, non la incontro da un po'».

«Se c'è il gas aperto qui facciamo tutti il botto. Ma guarda che ci capita a convivere con una sbandata».

Albertina annuisce, lei, romana da generazioni, come gli altri pochi condomini del palazzo di via de' Prefetti, nel cuore del centro storico di Roma, non ha molta simpatia per quella ragazza alta e appariscente, che da mesi si è piazzata nell'appartamento del figlio di un pezzo grosso, uno che lavora nelle stanze del potere. Elisabetta Di Leonardo, così si chiama, ma tutti la conoscono come Betty, è una ragazza sola, e vive senza regole. 

 

«Chiamiamo i pompieri», convengono Gina e Albertina, «prima che saltiamo in aria».

Il suono acuto della sirena dei vigili del fuoco riecheggia tra le stradine del centro, via de' Prefetti è in subbuglio, Gina e Albertina corrono incontro ai pompieri per indicare le finestre dell'appartamento al quarto piano, che, secondo loro, potrebbe esplodere da un momento all'altro.

E' il 27 giugno del 1986, fa caldissimo, l'afa rende ancora più insopportabili i miasmi che provengono dall'appartamento di Betty. I vigili irrompono e poco dopo riescono dall'abitazione, hanno chiamato la polizia, lì dentro c'è una ragazza morta.

Una piccola folla di condomini si è radunata sul pianerottolo, Gina e Albertina vorrebbero entrare, ma i vigili sbarrano il passo, le donne un poco si offendono, in fondo è grazie a loro se è stato trovato il cadavere. 

«Polizia, toglietevi di qui per favore».

La voce imperiosa del funzionario della squadra mobile non ammette repliche, Gina e Albertina si fanno il segno della croce, l'unico gesto di pietà per quella ragazza che non hanno mai conosciuto davvero.

 

Il capo della omicidi spinge la porta socchiusa, l’odore lo colpisce come una bastonata,  a stento riesce a controllare un conato di vomito. Ma non è solo per gli effluvi nauseabondi, osserva il cadavere da vicino, non è certo il primo che vede, ma raramente ha provato tanto ribrezzo. Betty giace sul pavimento in posizione supina ai piedi del letto. Accanto a lei otto siringhe, cucchiaini usati come fornelletto per sciogliere la droga, un bilancino. Ma non è stata l’eroina ad ucciderla. Qualcuno l’ha strangolata stringendole intorno al collo la collanina d’argento e l’ha poi colpita violentemente con sette coltellate, sei concentrate sul petto, una alla radice del collo. Una chiazza  di sangue si allarga sul parquet. Il corpo gonfio, il viso viola e in avanzato stato di decomposizione.  

 

Il contorno irregolare della ferita al collo è punteggiato di pallini bianchi. Larve di mosche.  In segno di estremo disprezzo, l’assassino ha gettato sul suo corpo, un biglietto da 50.000 lire. L’arma del delitto è in un cassetto del comodino, un coltello a serramanico sporco di sangue raggrumato, c’è pure un’agenda, una lista di cinquecento nomi con indirizzo e numero di telefono. «Porc…», il capo dell’investigativa ha un sussulto, tra quei nomi ne riconosce molti del bel mondo, gente ricca, alcuni potenti,  è una cazzo di indagine. Si affaccia a una finestra e guarda giù nella strada. Eccoli lì,  giornalisti e fotografi, sono già arrivati, parlano con i vicini per sapere qualcosa.

 

 

L’inferno mediatico è incominciato. Scorge Rino Barillari appostato con la sua Leica, quell’uomo è un vero castigo di Dio, lo tormenterà all’infinito per avere le foto più esclusive.

«La ragazza era sarda, di Cagliari», dice il funzionario della Mobile leggendo i documenti della morta. Betty aveva 26 anni. «Bisogna avvertire la famiglia ».Dice a se stesso. 

«Mia figlia ha sofferto?» Al telefono, la voce della madre di Betty è appena un sussurro. «Credo di no», mente il poliziotto.                                                            

Qualche giorno dopo una bara viene caricata sul traghetto diretto in Sardegna  tra gli sguardi stupiti dei turisti. Nessuno sa, che in quella cassa, c’è il corpo di una ragazza che sei anni prima aveva lasciato la sua isola  credendo di conquistare Roma.

 

Quando Betty parte da Cagliari è una ragazza stupenda, un corpo da indossatrice, capelli lunghi e neri, la bocca grande e sensuale.  La sua è una famiglia benestante , i De Leonardo vivono in una villa appena fuori città, il padre è un funzionario dell’Ente Saline. Una vita felice e ordinata.   Betty sa di essere bella e le piace fare la stravagante, dopo il diploma all’istituto magistrale  comincia a sognare il successo, il futuro le appare pieno di meravigliose promesse.

 

Un giorno Betty,  riempie la valigia con i suoi abiti più belli, saluta gli amici, mamma e papà e sale sul traghetto che la porterà a Roma.

Vuole fare l’attrice, ma  se ne scorda per amore. Ha conosciuto un uomo,  quello della sua vita, si chiama Marco, ricco e importante, dirigente d’azienda, ha due  case al centro. «Sei una ragazza straordinaria» le dice, «ti amo». «Anch’io». Betty si sente come in paradiso, lui le insegna a muoversi tra la gente dell’alta società romana, le giornate  trascorrono tra conversazioni leggere, party e salotti, tutto è elegante e di classe. Lei è bella, coccolata, coperta di regali e complimenti. In fondo fa l’attrice, recita il ruolo della mogliettina perfetta. Ma oltre la recita non può andare, perché Marco ha già una moglie vera e pure due bambini. Non le ha mai promesso di lasciare la famiglia , ma Betty, col passare del tempo, aveva sperato che questo accadesse. Con Marco il futuro è troppo incerto.

 

Ritorna al suo sogno, fare l’attrice. Un po’ di persone le ha conosciute durante i party e le cene, i loro nomi sono segnati sulla sua agenda. Ma riesce appena a fare qualche apparizione nelle sfilate e in un paio di fotoromanzi. Betty si dice che è normale, gli inizi sono duri per tutti. Marco non la sposerà mai. Lo lascia. E incomincia a conoscere un’altra Roma, quella senza finzioni e abbellimenti, quella rozza e spietata, popolata di truffatori, maneggioni del sottobosco cinematografico e politico. Quegli stessi amici che frequentavano le sue cene facendola sentire ogni volta una regina bella e desiderata adesso fanno finta di non conoscerla, perché lei, da sola, non conta  nulla. I maneggioni le promettono qualsiasi cosa. Dicono tutti più o meno le stesse frasi. E lei continua a riempire con le sue foto i book per agenti del cinema e produttori, ma  incappa  solo in cialtroni attratti dalla sua bellezza.  A poco a poco, senza che nemmeno lei se ne accorga, il sorriso scompare dal suo volto.

 

Amici veri non ne ha, e le speranze stanno scomparendo. Si ritrova con niente in mano, si dispera, non mangia più. La città che voleva conquistare è diventata una trappola. La sua bellezza attrae uomini volgari, senza scrupoli e senza amore, quel corpo così perfetto è diventato il suo nemico e Betty inconsciamente ha incominciato a odiarlo. 

 

Si rifiuta di nutrirlo, si ammala di anoressia.  Una sera qualcuno le fa conoscere la  cocaina «prendi è roba buona, vedrai». E lei, forse per trovare un attimo di pace,  si droga. Incontra un nuovo amore, Roberto, un ragazzo poco più grande di lei, figlio  di un importante funzionario dello stato. Betty  si trasferisce in via dei Prefetti, la storia con Roberto è complicata, Betty è avvelenata dall’eroina. Vestita di nero si aggira come un fantasma, la notte, per le strade antiche e buie tra il Pantheon, piazza Navona e Campo de’ Fiori in cerca di tipi loschi che le vendono furtivamente dosi di veleno. Disillusa, Betty, sceglie la via dell’autodistruzione, della vita ai margini. La siringa diventa  il suo unico tragico sollievo. 

«Devi lasciare la città». I genitori di Roberto sono preoccupati, nella Roma altolocata girano brutte chiacchiere, «andrai a Londra, da tua sorella». «A fare cosa?» «Quello che ti pare, ma lontano da qui e da quella sbandata».

 

Glielo dice in una luminosa mattina di marzo. «Betty devo partire, starò via per un po’». «Okay, ti aspetto». Ma Betty sa che è un addio.

«Puoi restare in questa casa se ti va».

«Grazie, mi va». Invece vorrebbe scappare da lì, ma non ha un altro posto dove andare. Resta da sola  nelle stanze di quell’appartamento che sarà prima il suo inferno, poi la sua tomba. Ha bisogno di soldi, molti,  l’eroina costa. La casa dove vive diventa un indirizzo frequentato da giovani di buona famiglia con macchinoni e tanta droga. Via dei Prefetti è a due passi da Montecitorio, da Betty arrivano anche politici e portaborse panzoni e volgari. Gli uomini con lei non sono più gentili, la droga è il suo unico rifugio,  diventa sempre più pallida e magra, è già il ritratto della morte.

Il giorno della scoperta del suo cadavere la Roma cosiddetta bene è scossa da un brivido. Sono in molti a ricordarsi di quella ragazza sola e sbandata con cui hanno passato ore di sesso e droga. Tremano perché i loro nomi sono elencati nella sua agenda. Vengono interrogati, ma hanno tutti un alibi. Chi ha ucciso Betty e perché’? Il capo della omicidi ha preso in considerazione più di un movente, l’assassino potrebbe essere un trafficante che non è stato pagato, o forse Betty ricattava qualcuno. Forse. Ma per l’investigatore la spiegazione di tutto è in quelle 50.000 lire gettate sul cadavere. Un gesto orgoglioso e sprezzante, come solo i signori del bel mondo sanno fare. Legge e rilegge i verbali degli interrogatori, ricontrolla ogni alibi, e alla fine è sicuro di conoscere il nome del colpevole. Ma non ha le prove. L’assassino ha fatto le cose per bene. L’omicidio di Betty resterà impunito.

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