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Visioni di futuro

Recovery fund, un'opportunità se promuove scelte lungimiranti

Il Recovery Fund può servire per sopravvivere oppure per progettare il futuro. C'è ancora tempo per elaborare una missione e una visione a lungo termine

Recovery fund, un'opportunità se promuove scelte lungimiranti

Il Recovery Fund è un’opportunità per l’Italia. Può essere usato per sopravvivere qualche mese o anno. Può essere investito per sostenere una crescita di più lungo termine e migliorare notevolmente il funzionamento del Paese progettandone il futuro. Tra questi due estremi finiremo, come sempre, per preferire il meno ambizioso.

 

Il futuro, infatti, richiede una visione su come ci proiettiamo nel mondo di domani, una missione su cosa vogliamo essere nel futuro e degli obiettivi per stabilire dove vogliamo arrivare. Serve un piano su come pensiamo e possiamo raggiungere missione ed obiettivi. Per la natura ormai consolidata della nostra cultura, abbiamo poca ambizione, in quanto manca soprattutto una visione e conseguente missione per il futuro. Di conseguenza, possiamo solo occuparci di spendere le risorse a disposizione per sopravvivere, inseguendo a fatica la direzione intrapresa da altri Paesi.

 

Era difficile sperare in una scelta lungimirante da parte del Governo, viste le due forze politiche che lo compongono, date da interessi e dinamiche profondamente diversi. Uno, il Movimento 5 Stelle, ha il merito di promuovere il cambiamento ma non sembra avere gli strumenti politici ed intellettuali per perseguirlo. Il secondo, il Partito Democratico, bada alla conservazione del potere cercando politiche che lusinghino una parte dei cittadini. Tra i due, è più populista il secondo. Lo stesso, per par condicio, varrebbe per qualsiasi composizione governativa, stando ai movimenti politici in campo: nessuno si presenta con una visione e una missione per il Paese.

 

Ciascun movimento ripete gli stessi errori, ragionando solo sul breve termine: illusioni per i cittadini pur di prendersi le poltrone del potere. L’opportunità del Recovery Fund non sono i 209 miliardi che riceveremo con clausole e interessi. Sono una somma importante, ma non così significativa per una realtà che vorrebbe governare il futuro. Il Recovery Fund ha anche una funzione simbolica. Rappresenta uno strumento con cui accendere i motori per generare una spinta propulsiva di lunghissimo termine. Di risorse ne serviranno molte altre per fare sì che l’Italia prenda il comando, torni a crescere e a dare un segnale di speranza ai suoi figli.

 

Ma con la spinta del fondo per la ripresa non sarebbe più un problema reperirle. Si è scelta la via che sappiamo, la più semplice. E forse la più inutile. Il documento che contiene i 557 progetti ministeriali per l’utilizzo, o meglio la spartizione, delle risorse derivanti dal Recovery Fund ricorda la lista della spesa non il piano d’azione di chi ha una missione da perseguire. Assomiglia, come segnala Giacomo Bandini su competere.eu “al modello di decision making ‘garbage can’": c’è poco di tutto senza una logica che dovrebbe invece risponde a quella strategia necessaria per raggiungere obiettivi e missione. Al piano si è preferito l’assalto alla diligenza. Va segnalata la ridondanza delle proposte, senza porre enfasi sull’utilità o meno dei singoli provvedimenti (sono presenti richieste di risorse per ammodernare gli impianti di areazione dei singoli dicasteri, creare un marketplace agroalimentare guidato da Poste Italiane, digitalizzare gli archivi della Guardia di Finanza e e molte altre novità di simile stampo).

 

Ogni Ministero presenta esigenze più o meno simili, per esempio, nell’ambito ICT: digitalizzare i processi della PA, sia al suo interno che verso l’utente; maggiore formazione tecnica per il personale, re-skilling e smart working; valorizzazione delle competenze STEM all’interno delle amministrazioni; potenziamento delle infrastrutture digitali e maggiore copertura delle reti a banda larga. Le richieste di ogni ente possono essere più efficientemente inquadrate in un piano nazionale di digitalizzazione e modernizzazione della PA. Ma perché le competenze digitali non vengono messe al centro dell’istruzione in modo che il nuovo personale pubblico le abbia già assimilate e sia portato ad aggiornarle periodicamente? Un ragionamento simile deve essere esteso a tutte le voci legate all’innovazione.

 

Dall’Industria 4.0, ancora realizzata a metà e per la quale le misure più efficaci dovrebbero essere incentrate sulla ricerca e il trasferimento tecnologico, dalle università alle imprese e viceversa. Fino alla creazione di una rete 5G nazionale che sia veicolo dei processi di digitalizzazione non rivolti solamente alle PA, ma anche ai cittadini e ai settori produttivi. Questo Governo ha due anni davanti a sé. C’è ancora il tempo per elaborare una visione e una missione. Il cambiamento si costruisce anche qui, non solo riducendo gli stipendi e i parlamentari.
Lo stesso dicasi per il MES. Al di là dei dubbi sul funzionamento del Meccanismo, ma i miliardi che riceveremmo, a cosa servono?

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