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Recovery Fund e Piano italiano

Recovery Fund Ue, Marco Buti: “Occorre evitare effetti Frankenstein”

Piani di ripresa: lo scenario italiano. Ne parla Marco Buti, capo-Gabinetto del Commissario Gentiloni: bilancio di un anno eccezionale e straordinario.

Recovery Fund Ue, Marco Buti: “Occorre evitare effetti Frankenstein”

Già Direttore Generale per gli Affari economici e finanziari della Direzione generale ECFIN della Commissione europea, Marco Buti è considerato, a Bruxelles, uno dei più esperti alti funzionari per aver saputo dirigere le politiche economiche e di Bilancio con competenza e lucida vision.

 

In quest’intervista, si riaccendono i riflettori su quello che è al centro delle politiche e misure europee anticrisi e del Bilancio pluriennale: Next Generation EU e, in particolare, il Recovery and Resilience Facility (RRF), a cui si guarda come un “bicchiere mezzo pieno”, la grande opportunità che porta con sé grandi rischi, in primis l’eccesso di deficit. A distanza di 365 giorni dalla sua nomina e dall’assunzione dell’incarico, Marco Buti ripercorre, con la corrispondente di The Italian Times, le esperienze e le tappe che lo hanno portato a Palazzo Berlaymont, raccontando anche qualche curiosità personale.

Il 28 novembre 2019, è stato nominato Capo dell’Ufficio di Gabinetto di Paolo Gentiloni, Commissario Ue all’Economia. Scopriamo quali sono state le maggiori sfide ed opportunità affrontate nei ruoli-chiave che Buti ha svolto all’interno dell’Esecutivo europeo.

 

Dottor Buti, nel ruolo di Capo del Gabinetto del Commissario Gentiloni e a distanza di un anno – eccezionalmente straordinario - dall’inizio del Suo incarico, sta seguendo da vicino i progressi degli Stati membri mentre tarano i rispettivi piani nazionali, i Recovery Plan. Cosa osserva in questi sviluppi e quali scenari intravvede, in particolare, in Italia?


Marco Buti: “A fronte di una crisi epocale, l’Europa ha saputo battere un colpo. La Presidente Ursula Von der Leyen ama dire “l’Europa s’è desta!”. Il successo di NextGenerationEU dipende tuttavia da come gli Stati membri sapranno utilizzare i 750 miliardi che la Commissione prenderà a prestito sul mercato e metterà a disposizione delle autorità nazionali. Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, trovo fondamentale che ci si focalizzi su poche priorità strategiche, combinando investimenti e riforme. E che si adotti una governance che permetta di utilizzare al meglio gli oltre 200 miliardi che arriveranno dall’Ue. Sulle priorità, ricordo che il Piano dovrà favorire la doppia transizione verde e digitale, rispondere alle raccomandazioni specifiche adottate nel Semestre europeo. Nel caso dell’Italia, si tratta ad esempio della riforma della Pubblica Amministrazione, della Giustizia civile, del rafforzamento dell’Istruzione. Sono priorità ampiamente condivise in Italia. Non è lo stesso per altri Paesi, come nel caso del rifiuto delle condizionalità sullo Stato di diritto da parte di Ungheria e Polonia. O di quelli da cui si esige una correzione del cosiddetto aggressive tax planning.”

 

Si parla molto, in questi giorni, della governance del Piano nazionale italiano. È veramente cruciale?

 

Marco Buti: “Come stabilisce il Regolamento del RRF, la governance per la gestione del Recovery Plan dovrà essere parte integrante del piano stesso. In questi giorni, si discute di task force e cabine di regia per portare avanti obiettivi e risultati. La Commissione non interviene sulle scelte nazionali. In Europa, ci sono diversi modelli di organizzazione. Ad esempio, la Francia ha affidato la responsabilità diretta al Ministro dell’Economia (Bruno Lemaire è ora titolare anche del Relance francese). La Spagna ha scelto di collocare la Cabina di regia nell’ufficio del Primo Ministro Pedro Sanchez. Quello che è importante è che si mantenga una coerenza nell’assetto istituzionale. Occorre evitare, per così dire, gli ‘effetti Frankenstein’: soluzioni adottate con successo in un Paese non necessariamente funzionano in un altro che ha caratteristiche istituzionali e tradizioni diverse. È quanto ho illustrato anche nell’ambito del panel di EuNews - How can we govern Europe?

 

Dato che l’Italia è il principale beneficiario del pacchetto ripresa e può accedere a finanziamenti comunitari per oltre 200 miliardi di euro, è comprensibile che ci sia molta attenzione su quello che sta facendo e che farà il Paese, qual è la strategia e a cosa lavorerà con la Cabina di regia e la task force. C’è un punto importante che vorrei sottolineare. Nel passato, si chiedeva all’Italia di fare riforme onerose, di realizzare programmi di austerità per rafforzare la credibilità nei confronti dei mercati finanziari. Oggi, invece, all’Italia si chiede la responsabilità di implementare il programma di investimenti e riforme che segnino un momento di svolta avviando un nuovo modello di crescita sostenibile. Non deve essere letto come un vincolo esterno, ma come un impegno comune, condiviso, che si chiede a tutta l’Unione per raggiungere obiettivi ambiziosi verso il cambiamento.

Si parla molto della corsa e degli sforzi a livello nazionale, ma ricordiamo che NextGenerationEU è una grande sfida anche per la Commissione europea. Stiamo infatti per diventare tra i più grandi emittenti di debito comune. Assistiamo ad una sorta di mutazione genetica, una ‘rivoluzione copernicana’ di cui sono partecipi e beneficiano tutti gli Stati membri. In sostanza, la Commissione sta avvicinandosi a diventare il Tesoro europeo, che interagisce con la Banca Centrale Europea (BCE) nel determinare il giusto policy mix per l’Eurozona. Ci stiamo attrezzando per passare da un ruolo di mera sorveglianza ad un’interazione continua con i Governi nazionali attraverso risorse finanziarie, incentivi e raccomandazioni elaborate anno per anno.”

 

A che punto è il dialogo con il Governo italiano? Il tempo stringe, quali potenziali scenari intravvede?


Marco Buti: “Il dialogo è iniziato in maniera molto costruttiva con le autorità italiane sulle “missioni” definite dal Governo e sulle componenti in termini di progetti di investimento e riforme. Non sono corrette le notizie che annunciavano un grave ritardo dell’Italia sulla trasmissione della bozza di Recovery Plan. Lo ha chiarito anche il Commissario Paolo Gentiloni in sala stampa della Commissione europea e in altre occasioni: c’è una scadenza prestabilita, comune e per tutti che non è ancora passata. Si attende quindi, fiduciosi, l’invio di tutti i piani.

Riguardo allo scenario italiano, per utilizzare un’immagine, bisogna passare dall’addizione alla sottrazione. Mi spiego: dai numerosi progetti e riforme già messi sul tavolo, bisogna togliere quelli meno strategici e definire bene le priorità. Semplificare focalizzandosi sul cosa, come e quando. Un’utile ‘bussola’ per muoversi in questa direzione, restando focalizzati sui target e i traguardi (milestones, nel gergo Ue), è quella delle Linee guida indicate da Bruxelles. Bisogna ‘guardare bene tutto il film’, passatemi questa metafora, arrivare all’approvazione, presentare i decreti attuativi, quantificare i costi, monitorare l’attuazione dei progetti e, al netto di questi passaggi, vedere infine cosa funziona e cosa non funziona. Tutto questo è molto chiaro ed è condiviso dalle autorità nazionali.”

 

Un’ultima battuta di chiusura, per fare eco a quanto accennato da Frans Timmermans: “l’Italia sa quello che deve fare

 

Marco Buti: “Frans Timmermans ha ragione. Oltre a quanto ho appena sintetizzato, aggiungo che sono convinto che la definizione di quello che l’Italia deve fare sia molto chiara. E, come ho sottolineato prima, c’è un’ampia convergenza sulle priorità. La definizione stessa di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza indica la linea da seguire. Un Piano prevede un’analisi seguita da pianificazione.

Non quindi un assemblaggio di progetti sparsi, ma investimenti e riforme organizzati con coerenza interna e articolata che si basi sui milestones e target di cui abbiamo parlato. La buona riuscita è data poi dall’elemento di ownership nazionale, ovvero la capacità di appropriazione e non d’imposizione esterna. E, infine, puntare alla ripresa e alla resilienza: mettere in campo investimenti e riforme per il rilancio dell’Italia post-pandemia, ma anche affrontare alle radici e in modo concreto i colli di bottiglia (bottlenecks) da sbloccare per rilanciare il Paese, sfruttandone appieno le grandi potenzialità. Come il Commissario Gentiloni ha più volte ribadito, l’obiettivo dell’Europa post-pandemia, e quindi anche per l’Italia, è ‘building back better’.”

 

Quindi, per chiudere, è ormai assodato che le politiche di recovery si intersecano con l’attenzione al futuro del debito comune e le discussioni su una riforma fiscale fondata su risorse proprie, partendo dalla plastic tax, dalla tassazione sulle emissioni di CO2 e dalla digital tax, per avviare i prossimi talk sulle transazioni finanziarie.

 

Dottor Buti, adesso parliamo di Lei. Qual è stato il percorso formativo e professionale che L’ha portata in Europa?


Marco Buti: “Sono nato e cresciuto a Molino del Piano, un paesino di mille anime in provincia di Firenze, in una famiglia molto modesta: mio padre operaio edile e mia madre casalinga.

Dopo aver conseguito la laurea in discipline economiche all’Università di Firenze, ho studiato all’Università di Oxford con una borsa di studio dell’Istituto San Paolo di Torino. Dopo un breve periodo di lavoro all’ufficio studi della FIAT, nella mitica Corso Marconi 10, sono poi entrato a far parte della Commissione europea nel 1987. La mia attività, all’inizio, era partita proprio dal desk in cui mi interfacciavo giornalmente con le specifiche politiche dell’Italia.

 

Ho ricoperto vari incarichi come economista presso la DG ECFIN, la Direzione generale che gestisce il portfolio economico-finanziario dell’Esecutivo Ue. Antecedentemente all’assunzione dell’incarico come Consigliere economico del Presidente della Commissione Romano Prodi nel 2002-2003, avevo già avuto esperienza nei Gabinetti (uffici privati) dei Commissari Raniero Vanni d’Archirafi (allora responsabile delle politiche d’impresa) e Filippo Maria Pandolfi (responsabile per la Ricerca ai tempi della Commissione Delors). Nel 2003, sono tornato alla DG ECFIN a capo della Direzione per le Economie degli Stati membri e, nel settembre 2006, sono stato nominato Direttore-generale aggiunto per poi prendere le redini della DG nell’autunno 2008, proprio all’inizio della crisi finanziaria. Ho poi lavorato con tre Commissari: Almunia, Rehn e Moscovici. Sono stati anni tempestosi, siamo stati nell’occhio del ciclone con la crisi di Lehman Brothers a fine 2008, la crisi del debito sovrano e dell’Eurozona nel 2011-2013 per non menzionare la crisi della Grecia che nel 2015 ha rischiato di fratturare la zona Euro. Ricordo ancora i servizi della CNN che coprivano live la crisi dell’euro, con l’alta tensione di quando si copre la presa d’ostaggi. Siamo sopravvissuti, siamo riusciti a rafforzare l’architettura della zona Euro – anche resta molto lavoro da fare - abbiamo comunque imparato tanto. Lezioni che, mutatis mutandis, si sono rivelate molto utili nella gestione della crisi pandemica.

 

Il lavoro con il Commissario Paolo Gentiloni si è rivelato (purtroppo direi, viste le cause) molto eccitante: ci siamo confrontati con una crisi epocale quando stavamo ancora recuperando dalla grande crisi finanziaria. Nell’organizzare la risposta di politica economica, l’esperienza a tutto tondo del Commissario e il suo coraggio politico hanno contribuito a plasmare le scelte della Commissione. Dobbiamo esserne fieri, come europei, ma anche come italiani. Ma il lavoro è tutt’altro che terminato: si sta per aprire per noi il 2021, un anno decisivo per rilanciare la crescita e consolidare i progressi nell’integrazione europea: l’implementazione di NextGenerationEU, la riforma delle regole di Bilancio, l’approfondimento della zona Euro e il rafforzamento del ruolo internazionale della moneta unica. Tutti capitoli aperti. Ma anche l’agenda sulla fiscalità, con la tassazione dei giganti del Web, il Carbon Border Adjustment Mechanism (emissioni), le nuove risorse proprie del QFP. Sono tutti temi che compongono il portafoglio del Commissario Gentiloni. Progressi concreti su queste politiche saranno centrali anche per consolidare il ruolo geopolitico dell’Unione europea.”

 

Lei è molto impegnato. Dal suo curriculum, leggiamo che ha pubblicato numerosi lavori economici, cosa inusuale per un funzionario senior della Commissione europea. Cosa fa nel poco tempo libero che Le rimane? Ci dica anche qualcosa di personale, sui Suoi hobby, cosa L’appasiona?


Marco Buti: “Mi appassiona la conoscenza e poterla trasferire ai giovani, soprattutto quando riscontro forte motivazione a comprendere e approfondire le dinamiche di funzionamento delle politiche e delle istituzioni europee, anche discuterle a tu-per-tu, quando se ne presenta l’occasione. A questo proposito, aggiungo che sono stato professore in visita presso l’Université Libre de Bruxelles, all’Università di Firenze, alla School of European Political Economy (SEP) della LUISS e all’Istituto Universitario Europeo (EUI), quest’ultimo è noto per l’offerta di programmi che attraggono ricercatori, esperti e studiosi da tutto il mondo. Infine, sono stato recentemente nominato membro del Consiglio della Fondazione Internazionale “Premio E. Balzan.

 

Ho pubblicato ampiamente sulle politiche dell’Unione economica e monetaria, su questioni macroeconomiche e fiscali, sulla riforma dello Stato sociale e sugli andamenti della disoccupazione nei Paesi dell’Unione europea, sulla governance economica globale. In breve, nel mio lavoro ho cercato di mantenere la “dignità analitica”, il che non è sempre facile quando si assumono alte responsabilità manageriali e si deve mediare fra posizioni politiche, a volte divergenti.

 

Nel tempo libero, mi incontro spesso con i miei figli, Aurelie, Gregory e Lorenzo, di cui sono molto fiero e che apprezzano la mia cucina italiana. Poi, leggo molto, tento di mantenermi in forma facendo jogging e andando in bicicletta, le attività sportive inevitabili in Belgio. E, nonostante, sia partito da oltre trent’anni dall’Italia, mantengo radici profonde nel mio Paese e nella mia regione (la Toscana). D’altra parte sono convinto che lavorare ‘in e per l’Europa’ non appiattisca le identità ma, al contrario, favorisca l’emergere del meglio di ogni nostra realtà locale o nazionale.”

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