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Fondi Ue, c’è l’accordo tra blocchi contrapposti e nuovi equilibri

L’inedita linea politica della Merkel da un lato, la ribellione dei ‘frugali’ dall’altra. L’Ue ‘ingessata’ al tempo del Covid cerca di guardare al futuro

Fondi Ue, c’è l’accordo tra blocchi contrapposti e nuovi equilibri

L’accordo c’è. Le quattro giornate fiume del Consiglio europeo straordinario sui fondi per la ripresa hanno portato a un’intesa. “La migliore possibile”, dice il presidente del Consiglio Conte, soddisfatto del risultato raggiunto. Il negoziato è stato lungo, ma l’Italia nel match che si è consumato con l’Olanda di Mark Rutte, il più intransigente dei “rigoristi”, non ha ceduto. Il compromesso finale ha messo d’accordo tutti ma qualcosa è cambiato negli equilibri Ue.

 

Per Angela Merkel questo semestre di presidenza tedesca dell’Ue è iniziato con una partita difficile e complicata. Sicuramente in maniera diversa da come la premier più longeva del vertice di Bruxelles potesse aspettarsi. Leader delle grandi coalizioni e tra le protagoniste indiscusse dei negoziati che portarono al Trattato di Lisbona, la cancelliera stavolta si è trovata di fronte a scenari inediti per la Germania. E a un rischio di stallo davvero arduo da superare, persino per lei che conosce bene la macchina istituzionale europea e che di trattative ne sa qualcosa. Questo Consiglio straordinario, chiamato a decidere su misure altrettanto eccezionali per portare l’Europa fuori da una crisi di portata epocale, ha cambiato qualcosa, rompendo schemi e le alleanze che hanno segnato gli ultimi 15 anni della storia dell’Ue. Nuovi equilibri politici stanno prendendo forma. Il conservatorismo ideologico dei Paesi del Nord, poco inclini a concedere spazio a Paesi più riformisti, ha mostrato i muscoli. Anche verso la leadership tedesca. Alla fine l’accordo in questo tormentato vertice dei 27 capi di Stato e di Governo dell’Ue è stato stretto. Ma l’Europa andata in scena stenta visibilmente a prendere il volo verso una reale unità politica.


In maggio il ritorno dell’alleanza franco-tedesca e l’appoggio di Parigi e Berlino alle istanze dei Paesi del Sud, travolti dalla pandemia e dalle conseguenze del lockdown, era stato determinate. La Commissione di Ursula Von Der Leyen, decisa a farsi promotrice di una Ue solidale e pronta a rispondere all’emergenza, il 27 maggio aveva presentato il Piano per la ripresa, il cosiddetto Recovery Fund, in linea con la proposta di Francia e Germania. Da quel momento la reazione ostruzionistica dei “Frugal four” – Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, a cui si è aggiunta in corsa anche la Finlandia – ha subito un’accelerazione. E quel ‘patto’, che per anni ha visto l’Olanda schierata a fianco della Germania, ha perduto progressivamente di potenza. Il premier olandese Mark Rutte si è trasformato nella punta di lancia dello schieramento del ‘blocco’ del Nord. Pronto a dare battaglia su conti, debito comune, controllo sull’accesso alle risorse. Così hanno portato nel cuore dell’Europa una ribellione che ha creato una spaccatura che non riguarda solo il merito del Piano della Ripresa, ma è ideologica.


Nell’Ue ci sono due idee di Europa, la partita dei leader è e continuerà ad essere questa. Da un lato la prospettiva di un’unione politica e della solidarietà finanziaria e delle riforme. Angela Merkel parlando al Parlamento europeo solo pochi giorni fa ha detto: “Perché l’Europa sia più forte in futuro deve rafforzare la coesione e la solidarietà”. Aggiungendo, a fronte del “più grande test nella storia dell’Ue” che “L’Europa non è solo qualcosa che ci è stato consegnato, qualcosa di fatale che ci opprime, ma qualcosa di vivente che possiamo modellare e cambiare”. Dall’altro, il mantenimento dello ‘status quo’. Di un assetto economico-finanziario forte e con organismi in grado di incidere sui singoli Stati, ma sul piano politico debole e governato dagli interessi nazionali. A scontrarsi anche due modelli di capitalismo. Quello nord europeo animato da un’etica protestante se non calvinista, e uno meridionale permeato da una visione cattolica. Non è un caso che i due blocchi contrapposti vedano da una parte i Paesi del Nord Europa, dall’altro i Paesi cattolici del Mediterraneo: Italia, Francia Spagna e Portogallo con l’inedito appoggio della Germania di Angela Merkel. Una cancelliera molto diversa dagli anni passati e che del ‘rigorismo’ ad ogni costo, stavolta, sembra davvero voler fare a meno. Berlino ha dovuto faticare non poco insieme alla Francia perché la proposta di Recovery Fund della Commissione non fosse stravolta, con un low profile e mettendo in campo la diplomazia. Ma con l’attacco all’Italia l’Olanda ha parlato a nuora perché suocera intenda. Gli affondi di Rutte sono stati anche contro il cambio di passo della Merkel e la nuova linea politica che sta portando nei palazzi di Bruxelles.


Ora però che l’accordo è raggiunto e che i primi passi verso un ‘new deal’ si stanno muovendo, esiste la reale opportunità di avviare davvero un processo riformatore. Il Fondo per la Ripresa, gli eurobond, un nuovo bilancio pluriennale basato sul Green Deal e la digitalizzazione dell’economia, non sono altro che strumenti innovativi per provare a fare il grande passo verso un’Europa diversa. La posta in gioco di questi giorni non è stato solo il Recovery fund ma qualcosa di ben più importante. All’Ue serve un cambiamento. Un riformismo illuminato, di cui si comincia a vedere qualche bagliore, e che dovrebbe ripartire da quel percorso costituente interrotto nel 2007, quando in Francia e in Olanda vinsero i ‘no’ ai referendum per la ratifica della Costituzione europea. E che il Trattato di Lisbona non è stato in grado di soppiantare.


L’Ue del convulso summit di Bruxelles ha mostrato tutta la sua fragilità. Ingessata com’è in un assetto istituzionale caratterizzato da un sostanziale deficit di democrazia. In Europa esiste un problema di rappresentanza politica e di rappresentatività democratica. Se uno vale uno e il voto del Lussemburgo che ha 600 mila abitanti conta quanto quello della Germania che ne ha 82 milioni, è chiaro che l’impasse è sempre dietro l’angolo. Negli organismi più importanti e con capacità decisionale il sistema di voto andrebbe rivisto sostituendo all’unanimità il principio della doppia maggioranza. Da qui è necessario partire affinché l’Europa dei capi e delle tecnocrazie cambi volto e si faccia, invece, interprete dei bisogni reali della maggioranza dei suoi cittadini. Lo spettacolo andato in scena - i blocchi ideologici, le prese di posizione, l’intransigenza e persino il risentimento - non aiuterà questo percorso, né gli europei a sentirsi più vicini. Ma l’accordo trovato nel rush finale lascia sperare che qualcosa stia cambiando.

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