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Ritratti (poco) diplomatici

Nel Nobel per la Pace al World Food Programme c’è davvero molta Italia

Non solo la sede a Roma, ma soprattutto la base di pronto intervento umanitario Onu di Brindisi. Così ho collaborato con David Beasley ed Ertharin Cousin

Nel Nobel per la Pace al World Food Programme c’è davvero molta Italia

“Il Premio Nobel per la pace è un riconoscimento che ci commuove e ci onora”. Con queste parole David Beasley, Direttore Esecutivo del World Food Programme, ha commentato la decisione del Comitato del premio norvegese di assegnare questo prestigioso riconoscimento all’agenzia delle Nazioni Unite che lotta contro la fame nel mondo e l’insicurezza alimentare. Una scelta tanto inattesa quanto, a mio avviso, opportuna ed efficace nel mandare all’intera comunità internazionale un forte messaggio politico: il sistema multilaterale è in difficoltà e va sostenuto, dal momento che l’azione meritoria del WFP si sta rivelando quanto mai preziosa e necessaria. 

 

Sfide di portata globale quali la lotta alla povertà e alla fame non possano essere affrontate in maniera unilaterale, ma è al contrario indispensabile adottare un approccio comune e coordinato. Il tutto a maggior ragione in questa fase così complessa per il sistema delle relazioni internazionali, già messo a dura prova dalle spinte “centrifughe” e “solitarie” di alcuni dei suoi membri più importanti (pensiamo agli Stati Uniti), ma indebolito anche dagli effetti economici e sociali della pandemia in corso. Si spiega dunque chiaramente perché l’azione del WFP sia stata ancora più cruciale in questa fase per far sì che la sicurezza alimentare sia uno strumento di pace.

 

Soddisfazione speciale anche per il Comitato italiano del WFP che ho presieduto per tanti anni e con il quale abbiamo avviato un lunga serie di collaborazioni con le donne e uomini del WFP a cominciare dai due ultimi direttori esecutivi, David Beasley ed Ertharin Cousin. Due personalita di rilievo che ho avuto modo di conoscere a Washington, uno come governatore repubblicano  dello Stato della South Caroline e l’altra come ambasciatrice degli Stati Uniti d’America presso la Fao e prima come autorevole esponente del partito Democratico. Due personalita’ diverse come provenienza politica e percorso accademico ma accomunate dalla stessa passione per la solidarietà internazionale e la sicurezza alimentare e per la piu’ grande organizzazione umanitaria al mondo quale e’ il WFP. Poco conosciuta in Italia forse perche’ svolge tutta la sua attivita nei paesi piu’ bisognosi di aiuto, in Africa, Asia ed America Latina e perche’ la gran parte dei suoi dipendenti, a partire dal Direttore esecutivo trascorrono gran parte del loro tempo all’estero. 

 

E non dimentichiamo che si tratta  di un Nobel per la Pace in cui l’Italia può vantare un ruolo. Non soltanto per ospitare materialmente il quartiere generale del WFP e delle altre organizzazioni del polo alimentare, la FAO e l’IFAD, tutti e tre a Roma ma anche per la presenza a Brindisi della Base di Pronto Intervento Umanitario delle Nazioni Unite: un hub logistico di importanza cruciale da cui partono i primi soccorsi di emergenza entro 24/48 ore. Un sistema che si basa su mezzi e professionalità internazionali, ma che si serve molto anche del contributo fornito da lavoratori ed esperti del nostro Paese.

 

Ecco perché l’Italia dovrebbe fare di più per sostenere questa organizzazione, facendone uno degli strumenti principali su cui sviluppare le nostre attività di cooperazione internazionale. La Presidenza del G20, che spetterà l’anno prossimo al nostro Paese, fornirà un’ottima occasione per puntare in maniera forte sulla lotta all’insicurezza alimentare nell’ambito della risposta globale alla pandemia. Speriamo che il Governo si renda pienamente conto della centralità del World Food Programme come strumento per rafforzare la resilienza del sistema internazionale. 

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