A Giorgio Gori il ruolo di sindaco di Bergamo inizia a star stretto. Lunga carriera in Mediaset, dove è stato direttore di Italia 1 prima e di Canale 5 poi, tra i fondatori nel 2001 della società di produzione televisiva Magnolia, il primo cittadino del capoluogo bergamasco ha iniziato la sua scalata in politica nel 2011 quando si è iscritto al Partito democratico. Nel 2013, alle elezioni politiche si è candidato al Senato della Repubblica ma non è stato eletto. Nel 2014 è diventato sindaco della ‘città dei Mille’, ottenendo il secondo mandato nel 2019 con il 55% dei voti. Nel frattempo, nel 2018, è stato in lizza per diventare presidente della Regione Lombardia. Elezioni vinte dal centrodestra con Attilio Fontana.
Adesso Gori ambisce a un ruolo nazionale nel Pd e nella politica italiana. E lancia i suoi strali a un Partito democratico nella ‘morsa’ dell’alleanza con i Cinquestelle. E al leader, Nicola Zingaretti. Forte sicuramente di una notorietà aumentata, seppur per la triste vicenda del Covid, che ha visto Bergamo martoriata per numero di vittime e per la diffusione dei contagi. È fuori discussione che negli ultimi mesi l’ex manager Mediaset ed ex imprenditore, sia stato particolarmente presente sugli organi di informazione italiani con un ruolo più nazionale che locale. Un’onda mediatica che Giorgio Gori cavalca in questi giorni contestando apertamente Zinga e la sua laedership. Dalle pagine di un noto quotidiano Gori chiede “subito un congresso perché in autunno potrebbe essere troppo tardi per salvare il Paese", e un Pd molto “più determinato e incisivo in questa fase”. Dunque, un cambio di passo. E un’accelerazione “sulle riforme di cui l’Italia ha bisogno". Perché il Pd dovrebbe essere "il partito del lavoro, il punto di riferimento di lavoratori, operai e imprenditori, di precari e partite Iva, di donne e giovani e noi", dice, “non lo siamo”.
I sostenitori del segretario fanno però quadrato intorno al leader. Il vice, Andrea Orlando, il più piccato nei confronti del primo cittadino di Bergamo apre sui social un duello di botta e risposta. Ma persino gli appartenenti alla corrente di Base Riformista, quella dello stesso Gori per intenderci, non approvano le sue esternazioni. Basti guardare la dichiarazione di Dario Parrini, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali del Senato, che sulla sua pagina Facebook stigmatizza l’accaduto: "Apprezzo Giorgio Gori per come amministra Bergamo e per la cultura politica che esprime. Ma penso che stia sbagliando: aprire in questo momento una diatriba interna sul segretario non serve al Pd e non serve al Paese, e risulta una cosa incomprensibile alla stragrande maggioranza del popolo democratico e dei cittadini italiani". Della serie: stai buono.
Ma se la fuga in avanti del sindaco di Bergamo alla fine diventa un boomerang, è anche vero che un obiettivo l’ha raggiunto. Quello di agitare le acque ‘troppo chete’ intorno alla linea del segretario. Prove tecniche per ‘sparigliare’ gli attuali equilibri. Tecnica ben conosciuta dai renziani. E Gori è stato a lungo amico del senatore di Scandicci. Anche se poi, a sorpresa, non lo ha seguito nell’avventura di Italia Viva.
E sono proprio gli sparigliatori del partito di Matteo Renzi a portare ulteriore scompiglio nelle ultime giornate del Pd. Con la decisione di candidare nella Regione Puglia Ivan Scalfarotto in alternativa all’attuale governatore Emiliano. Scalfarotto avrebbe l’appoggio di +Europa e di Carlo Calenda. Il leader di Azione, nemico acerrimo di Renzi fino a pochi giorni fa, offre anche il suo appoggio incondizionato a Gori. A legarli l’opposizione all’alleanza Pd-M5S che ha dato origine al governo giallorosso. E la ricerca di un futuro.
Non è improbabile che rotture ulteriori ci siano nel centrosinistra per le candidature in altre regioni che devono andare al voto e per i rinnovi dei Consigli comunali: i più importanti Roma e Torino. I nuovi posizionamenti, più che sul piano numerico, rischiano di lacerare il Pd su un tema cruciale: appunto quell’alleanza con i Cinquestelle mal digerita da molti. Un Pd appiattito sul premier Conte e sul M5S può star bene agli uomini di apparato che hanno altre mire e proprie ambizioni per i prossimi scenari politici. Ma non alla base. La stessa che però difficilmente volterà le spalle a Zingaretti. Buonista, bravo a dare un colpo al cerchio e una alla botte. Ma che pur sempre mantiene il Pd nelle stanze dei bottoni.