la sentenza che fa discutere

Cassazione: multa se ci si ferma in autostrada quando “scappa”

I supremi giudici hanno ritenuto legittima la sanzione per chi si ferma in caso di bisogni impellenti a lato della carreggiata: “Contrario alla decenza”

Cassazione: multa se ci si ferma in autostrada quando “scappa”

Estate, tempo di viaggi - a volte molto lunghi – lungo le autostrade. Ma attenzione alle esigenze “impellenti”: se ci si ferma per una sosta per “bisognini” vari, si può incappare in una multa e a nulla varrà la motivazione dell’urgenza. La Cassazione, infatti, ha ritenuto legittima una multa a un automobilista che si era fermato a fare pipì in piedi contro il guardrail dell’autostrada.

 

La sentenza: “Gesto contrario alla decenza”

La motivazione della sentenza, destinata a far discutere, è che il gesto è "contrario alla pubblica decenza rimanendo irrilevante che tale atto non era stato percepito da alcuno e che lo stesso non era risultato concretamente offensivo”. A stabilirlo sono stati i giudici della Cassazione, intervenuti su un caso riportato dall’Agi e citato dallo Studio Cataldi.

A rivolgersi alla Suprema Corte era stato un automobilista che si era visto prima multare per la sosta “urgente” a lato della carreggiata, poi respingere il l’appello contro l’ordinanza di ingiunzione al pagamento, da parte del Tribunale di Pistoia. L’uomo, infatti, era stato sorpreso a urinare sul guardrail che delimita la corsia di emergenza di un tratto della A1.

Inutile, dunque, è risultato il ricorso del guidatore, che si aveva fatto leva sul fatto di non aver dato fastidio a nessuno e non aver provocato situazioni pericolose per la viabilità.

 

Non si può offendere la pubblica decenza

Secondo quanto emerso, l’uomo non è riuscito a dimostrare di aver messo in atto “tutte le cautele possibili per evitare di essere visto e di offendere la pubblica decenza”. Non solo: secondo gli ermellini l’automobilista non avrebbe agito sulla base di “uno stato di necessità causa di un malessere, come nel caso della necessità impellente della minzione”. Insomma, avrebbe potuto “tenersela” e attendere di raggiungere un’area di sosta apposita dotata di servizi igienici.  

 

Precedente recente

Attenzione, dunque, a come ci si comporta, ma anche a quello che si scrive su WhatsApp. Di recente, infatti, sempre la Cassazione aveva emesso un’altra sentenza che riguarda un comportamento diffuso: parlare male del capo sui social. In questo caso, il comportamento ritenuto scorretto era costato il posto di lavoro a un dipendente di una società che in una chat Whatsapp con una ex collega aveva "criticato e denigrato i responsabili dell'impresa" per la quale lavorava.

In primo grado, il tribunale di Udine aveva dichiarato illegittimo il licenziamento "per difetto di giusta causa". Ma la Corte d'appello di Trieste aveva poi stabilito che la conversazione via chat "non avesse alcun rilievo disciplinare", accogliendo però le richieste della società di sciogliere il contratto per il venir meno del rapporto di fiducia. Infine, la Suprema Corte ha stabilito che sul caso sia celebrato un processo d’appello bis.

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