Gli scenari post elezioni

Elezioni: Pd più forte, maggioranza alla prova delle riforme

Leaderismo territoriale e fine del tripolarismo: cosa cambia all’indomani del voto tra nuovi equilibri politici e i correttivi istituzionali necessari

Elezioni: Pd più forte, maggioranza alla prova delle riforme

Il colpo di scena è che non c’è stato nessun colpo di scena. Nessun ‘cappotto’ del centrodestra alle regionali – la partita è finita pari e patta, 3 a 3 –, nessuna spallata al Governo, nessuna straordinaria rimonta al referendum costituzionale dei No, che pure hanno segnato un netto recupero. I Sì hanno stravinto sfiorando il 70%, anche se quasi un italiano su tre ha votato contro la riforma che prevede la riduzione dei parlamentari italiani da 945 a 600.

 

Le regionali dei personalismi

Ma le fibrillazioni nei partiti non mancano. Perché di segnali alla compagine politica nazionale da questa tornata elettorale ne arrivano, e non sono da sottovalutare. Primo dato: queste elezioni regionali sono state contrassegnate da successi personali oltre ogni più rosea previsione. L’uomo dei record è senza dubbio Luca Zaia. Il governatore del Veneto si riconferma al suo terzo mandato con il 76,8 dei consensi. E’ il presidente di Regione più votato da quando è in vigore l’elezione diretta dei presidenti delle Giunte regionali. Mai nessuno ha fatto meglio di lui. La sua lista ‘Zaia presidente’ porta a casa quasi un milione di voti, il 44, 6% dei consensi, lasciando indietro al 16, 9 % la lista della Lega. In Liguria la storia si ripete. La conferma di Giovanni Toti arriva con il 56,1% dei voti contro il 38, 9% di Ferruccio Sansa. Ma è la lista ‘Cambiamo con Toti presidente’ a fare il pieno di voti, risultando la più votata della coalizione di centrodestra.  Identico copione in Campania. Il successo di Vincenzo De Luca è fuori discussione. Anche se in questo caso la lista del Pd è prima con il 17%, quella di ‘De Luca presidente’ seconda con il 13,3% e ben 305 mila voti. Il panorama regionale prepara i leader nazionali di domani. 

 

Toscana e Puglia salvano il Pd

La vittoria del centrosinistra con Eugenio Giani in Toscana è una boccata di ossigeno per il Partito democratico. Che conquista il 34% dei consensi nella storica roccaforte ‘rossa’ - data quasi per persa in tutti i sondaggi precedenti al voto - avanzando persino a Pisa e Siena dove le amministrazioni comunali sono in mano al centrodestra. La Toscana non solo ha resistito ma vede la risalita dei dem. Anche il ‘mal sopportato’ Michele Emiliano segna un punto a suo favore in casa Pd. Batte Raffaele Fitto staccandolo di 8 punti percentuali e porta i dem ai vertici: sono il primo partito regionale con oltre il 17%.

 

I Cinquestelle crollano ovunque

Brucia al partito di Di Maio quel 3,2% del candidato del Movimento in Veneto, il 6,4 di Irene Galletti in Toscana e il 10% della Ciarambino in Campania. Anche la candidata in Puglia, Antonella Laricchia, scende all’11,1%. Il titolare della Farnesina fa ammenda e dice: “Strategia sbagliata”.  La resa dei conti è sempre più vicina. E nemmeno la vittoria referendaria che il ministro si è affrettato a intestare al Movimento basterà a fermarla. 

 

Salvini stabile non esulta

L’unica novità per il centrodestra è la vittoria di Francesco Acquaroli nelle Marche. Che fa più felice Giorgia Meloni che il leader del Carroccio. Salvini insiste: la Lega è il primo partito nel Paese, ma i risultati sono troppo al di sotto delle aspettative. Sperava nella vittoria in Toscana con Susanna Ceccardi e, invece, gli è toccato incassare un risultato di tutto rispetto ma non dirimente. E poi quelle liste dei presidenti. Non ne esce più forte Salvini dall’election day, nel partito come nella coalizione.  

 

Cosa cambia

Che dopo i risultati di questa tornata elettorale il Governo a guida Giuseppe Conte resterà in sella almeno fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica nel gennaio del 2022 è quasi scontato. Come, però, è tutto da verificare. Con il passaggio referendario la legge di riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari potrà essere promulgata. Anche se l’Esecutivo entro 60 giorni dovrà provvedere a ridisegnare la mappa dei collegi. La riforma sarà operativa a partire dalla prossima legislatura ma da subito la maggioranza giallorossa è chiamata alla prova non rinviabile delle riforme: legge elettorale, elezione dei senatori non più su base regionale, modifica del numero dei consiglieri regionali che partecipano all’elezione del Capo dello Stato, equiparazione dell’età degli elettori di Camera e Senato. Temi tutt’altro che pacifici e su cui la maggioranza più volte si è mostrata litigiosa. 

 

Fine del tripolarismo 

Il Pd adesso è più forte e Zingaretti pure. I grillini molto meno. Non basta il voto referendario per stare al sicuro. Di Maio sembra consapevole che l’alleanza con i dem possa essere l’unica ancora di salvezza in futuro per non scomparire del tutto. Le prossime sfide si giocheranno tra centrodestra e centrosinistra. E sul rimpasto passa la palla ai democratici: “Abbiamo sempre detto tutti che le regionali non avrebbero influito sul governo, e così deve essere. Non credo che il Pd chiederà il rimpasto”. Ergo, dipende da Zingaretti. Che di certo da oggi ha l’occasione di rinsaldare il suo peso nel Governo. Ma per il momento non si pronuncia.

 

Il centrodestra nella partita di riforme e Recovery Fund

Intervistato a Porta a Porta più volte Matteo Salvini ha ribadito: “Bisogna lavorare insieme per affrontare i problemi del Paese”. I risultati elettorali non consentono di chiedere di più. Anche se qualcuno nella Lega già ieri parlava di “Parlamento delegittimato” dopo la valanga di Sì sul taglio di deputati e senatori, il capo del Carroccio prende tempo. E’ distensivo, non alza le barricate, attacca solo i cinquestelle, e sa che sono due le partite più importanti da qui al 2022: riforme e fondi europei. E vuole avere il suo ruolo in entrambe. Ma anche nel centrodestra i poteri di forza sono tutt’altro che decisi. La Meloni incalza e all’interno della Lega leader nazionali crescono. 

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