Il premier israeliano propone una soluzione post-bellica che prevede la smilitarizzazione e la deradicalizzazione della Striscia, la creazione di una zona cuscinetto e il controllo della sicurezza sulla Cisgiordania. L’Anp respinge il piano e chiede il riconoscimento dello Stato palestinese. Il capo della Cia incontra a Parigi i mediatori per cercare una via d’uscita dal conflitto.
Il conflitto di Gaza entra nel quinto mese
Sono passati 140 giorni dall’inizio della guerra di Gaza, il conflitto più lungo e sanguinoso tra Israele e Hamas. Il bilancio delle vittime è drammatico: oltre 30.000 morti, di cui più della maggianza sono civili, e decine di migliaia di feriti e milioni di sfollati. Le infrastrutture della Striscia sono state devastate dai bombardamenti israeliani, che hanno colpito anche scuole, ospedali e moschee.
Il piano di Netanyahu per il dopoguerra
In questo scenario di violenza e distruzione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato nella notte tra giovedì e venerdì il suo piano per il “giorno dopo”, ottenendo l’approvazione del gabinetto di guerra. Il piano, pubblicato dall’Ufficio del premier, prevede una serie di misure a breve, medio e lungo termine, che mirano a garantire la sicurezza di Israele e a ridurre il potenziale bellico di Hamas e della Jihad islamica.
A breve termine, gli obiettivi della campagna militare rimangono invariati: distruggere le capacità e le infrastrutture militari dei gruppi terroristici e ottenere il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza.
A medio termine, Israele intende mantenere la libertà di azione a Gaza, creare una zona cuscinetto attorno alla Striscia, che resterà in vigore “finché ce ne sarà la necessità di sicurezza”, imporre una “chiusura al confine meridionale” con l’Egitto, con il sostegno degli Stati Uniti e la collaborazione dell’Egitto “per quanto possibile”, e mantenere il controllo della sicurezza sulla Cisgiordania, da terra, aria e mare, “per prevenire il rafforzamento di elementi terroristici in (Cisgiordania) e nella Striscia di Gaza e per contrastare le minacce verso Israele” provenienti da queste aree.
A lungo termine, il piano di Netanyahu prevede che il governo civico della Gaza postbellica sia affidato a “professionisti con esperienza manageriale”, “funzionari locali che non devono essere identificati con stati o organizzazioni che sostengono il terrorismo e non devono ricevere stipendi da loro”, ma non specifica chi saranno questi soggetti. Inoltre, la ricostruzione di Gaza sarà subordinata alla smilitarizzazione e alla deradicalizzazione della Striscia, e Israele lavorerà per garantire la chiusura permanente dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, UNRWA, e la creazione di un nuovo organismo internazionale.
Infine, il premier israeliano ribadisce il suo rifiuto totale dei “diktat internazionali” su un accordo sullo status finale con i palestinesi e il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese da parte della comunità internazionale, che definisce “un enorme premio al terrorismo” e un ostacolo a qualsiasi soluzione pacifica.
La reazione dell’Anp e dei mediatori internazionali
Il piano di Netanyahu ha suscitato la netta opposizione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che lo ha definito “inaccettabile” e “una violazione dei diritti del popolo palestinese”. Il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas detto Abu Mazen ha ribadito la sua richiesta di un cessate il fuoco immediato e incondizionato, del ritiro delle truppe israeliane da Gaza, della fine del blocco della Striscia, dell’apertura dei valichi di frontiera, del rilascio dei prigionieri palestinesi e del riconoscimento dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come capitale.
Anche i mediatori internazionali, che da mesi cercano di trovare una via d’uscita dal conflitto, hanno espresso le loro perplessità sul piano di Netanyahu, ritenendolo troppo unilaterale e poco realistico. In particolare, l’Egitto, che ha svolto un ruolo chiave nel tentativo di negoziare una tregua, ha espresso la sua delusione per la chiusura al confine meridionale, che considera una violazione della sua sovranità e una minaccia alla sua sicurezza. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha invece sottolineato la necessità di una soluzione politica basata sulla legittimità internazionale e sui diritti umani, e ha chiesto a Israele di rispettare il diritto umanitario e di proteggere i civili.
Il capo della Cia a Parigi per i negoziati
Nonostante le difficoltà, i colloqui per cercare di raggiungere una tregua tra Israele e Hamas continuano anche nel fine settimana. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana e araba, citando varie fonti, già ieri sono iniziati nella capitale francese i colloqui tra la delegazione israeliana, guidata dal capo dei servizi segreti del Mossad David Barnea, e i rappresentanti francesi, egiziani e qatarioti. A Parigi si è recato anche il direttore della Cia, William Burns, che ha incontrato i mediatori per discutere delle possibili modalità di un cessate il fuoco. Si tratta del primo viaggio ufficiale del capo della Cia da quando è stato nominato dal presidente americano Joe Biden, che ha espresso il suo sostegno a Israele ma anche la sua preoccupazione per la situazione umanitaria a Gaza.
Sirene d’allarme nel nord di Israele
Nel frattempo, il conflitto non accenna a fermarsi. Nelle ultime ore, si sono registrati intensi combattimenti tra l’esercito israeliano e i militanti di Hamas a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, e nel quartiere Zeitoun di Gaza City. Lo hanno reso noto le Forze armate israeliane sui profili social di IDF. “Molti agenti di Hamas sono stati uccisi nelle ore scorse durante intensi combattimenti a Khan Yunis, nel sud di Gaza, e in una vasta operazione nel quartiere Zeitoun di Gaza City”. In particolare, in quest’ultima area è stata avvistata con un drone “una cellula di Hamas che pianificava di lanciare missili anticarro. Le truppe hanno rapidamente ordinato un attacco aereo”. A Khan Yunis, sempre secondo IDF, i combattimenti sono ancora in corso, con bombardamenti e scontri sul terreno.
Inoltre, per la prima volta da quando è scoppiata la guerra, sono state attivate le sirene d’allarme nel nord di Israele, in seguito al lancio di alcuni razzi dalla Siria. Secondo le fonti militari, si tratterebbe di un gesto simbolico di solidarietà con i palestinesi da parte di alcuni gruppi filo-iraniani operanti in quei territori.