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Le presidenziali

Usa 2020, l’agenda del nuovo presidente Joe Biden: le nuove priorità

Dopo aver annunciato il rientro negli accordi sul clima, come cambieranno i rapporti con Europa Cina sanità economia americane l'analisi di Gianluca Pastori

Usa 2020, l’agenda del nuovo presidente Joe Biden: le nuove priorità

Dalla politica economica a quella estera, con i rapporti con Cina, Russia e anche Medio Oriente, sono diversi i "fascicoli aperti" sul tavolo dello Studio Ovale, dove si prepara a entrare Joe Biden, a meno di sorprese dell’ultima ora. Ci vorrà tempo, l’insediamento ufficiale avverrà solo il 20 gennaio, ma nel frattempo l’ex braccio destro di Barack Obama, si prepara a iniziare il nuovo mandato nel segno della discontinuità, almeno in alcuni campi come quello delle politiche ambientali. Cosa accadrà, invece, sul fronte sanitario? Come potrebbero cambiare i rapporti con l’Europa (sui dazi commerciali) e Israele (dopo gli Accordi di Abramo)? Ecco l’analisi di Gianluca Pastori, Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l'Europa alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica.

 

Il primo annuncio del candidato democratico alla Casa Bianca è stato quello relativo al dietrofront degli Usa sul clima, con la volontà di tornare a sottoscrivere gli accordi di Parigi, tra l’altro pochi giorni dopo la ratifica dell’abbandono da parte dell’amministrazione Trump. “Lo faremo in 77 giorni” ha invece detto Joe Biden, calcolando i tempi tecnici per avviare un cambio di rotta. Sarà così? 


Gianluca Pastori: «Joe Biden ha fatto diverse dichiarazioni di impegni sul fronte ambientale nel corso della campagna elettorale. In alcuni casi questi annunci sono stati azzardati tanto da essere irrealistici, come quando ha ipotizzato la messa al bando dei combustibili fossili scatenando le reazioni dell’industria petrolifera americana. Credo che Biden rientrerà negli accordi di Parigi, ma non tanto per un particolare interesse per le questioni ambientali, che pure sono presenti, quanto perché significa mandare un segnale chiaro sulla volontà di rioccupare un posto di primo piano negli organismi internazionali come l’Onu, che invece Trump ha snobbato ostentatamente. Organismi nei quali intanto la Cina sta acquistando più peso. Gli Stati Uniti a eventuale guida Biden, dunque, hanno tutto l’interesse a essere presenti e attivi nell’ambito dei consessi multilaterali.» 

 

Un altro tema scottante, oggetto del primo breafing delle scorse ore di Biden con il suo staff, è la sanità con l’emergenza Covid: c’è da aspettarsi un intervento sul sistema sanitario Usa?


Gianluca Pastori: «Negli scorsi mesi, sotto la pressione dell’emergenza Covid, Joe Biden è stato spesso “sfidato” a illustrare la sua visione della sanità americana, ma in genere ha risposto in modo evasivo, cercando di evitare impegni concreti. Sicuramente è e rimane un obamiano, nel senso che è plausibile aspettarsi che voglia rafforzare l’Obama Care, sul quale peraltro Donald Trump è intervenuto in modo poco convinto. Ma non credo che sarà stravolto l’impianto privatistico della sanità americana né che possano esserci altre novità di rilievo, se non un ampliamento delle maglie per le categorie più fragili.» 

 

Parlando di politica estera, Europa, Cina e Russia hanno seguito con attenzione le elezioni, le prime due con particolare interesse anche per quanto riguarda i rapporti commerciali e i dati. Cosa succederà ora? E’ vero che una vittoria di Biden era auspicata da Pechino, meno da Mosca? 


Gianluca Pastori: «Non sono completante convinto che un successo di Biden sia nell’interesse cinese, per almeno tre motivi. Il primo è che l’ostilità verso Pechino è diventato un tratto presente negli Stati Uniti a prescindere da chi sieda alla Casa Bianca, perché la concorrenza cinese è una minaccia per l’economia americana. Tutte le piattaforme di politica economica statunitense, che siano repubblicane o democratiche, hanno incorporato da tempo il concetto di difesa del lavoro americano, quindi sono in rotta di collisione con la Cina. Da questo punto di vista penso che cambierà poco. Il secondo motivo è che Biden ha un problema con gli alleati dell’Asia orientale, primi tra tutti Giappone e Corea del Sud, perché è percepito come troppo morbido con la Cina. Quindi ha bisogno di accreditarsi come Presidente che sappia farsi rispettare e non può permettersi posizioni troppo morbide. Il terzo aspetto ha a che vedere con i diritti umani: a differenza di Trump, Biden nella sua agenda ha un ritorno abbastanza marcato di questa questione. Penso quindi che i rapporti potrebbero migliorare, ma solo da un punto di vista formale, con uno stile più sobrio, senza le boutade di Trump, ma anche senza discostarsi troppo nella sostanza.»

 

Cosa potrebbe accadere invece nei rapporti col Cremlino? Osservando certa stampa russa sembrava di intuire che forse si sarebbe preferito un secondo mandato di Trump.

 

Gianluca Pastori: «Nei quattro anni di amministrazione Trump gli Usa sono stati percepiti sicuramente come più “vicini” vicini alla Russia, ma nella realtà dei fatti i rapporti non sono migliorati ed è prevedibile che non lo faranno neppure con Biden alla Casa Bianca. Potrebbero apparire più distesi solo per alcuni paesi dell’Europa dell’est che temono la Russia». Pastori è anche Docente nel modulo di Storia delle relazioni internazionali nel Master in Diplomacy dell'ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale; presso lo stesso Istituto.

 

Per quanto riguarda il Medio Oriente, invece, c’è da aspettarsi qualche inversione, dopo lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e gli Accordi di Abramo, entrambi fortemente voluti da Trump? 


Gianluca Pastori: «Non credo proprio in una retromarcia sulla questione dello spostamento dell’ambasciata anche perché si è trattato di un’iniziativa non attribuibile alla sola volontà di Trump, che pure l’ha conclusa: in realtà erano anni che il Congresso si era impegnato nel trasferimento da Tel Aviv a Gerusalemme, anche se non era stato terminato per questioni di opportunità. Non credo quindi che ci sarà alcun passo indietro con Biden, anche se è immaginabile che le relazioni con Israele si raffredderanno. Non dovrebbero però raggiungere il “gelo” degli 8 anni di amministrazione Obama durante i quali i rapporti sono stati pessimi, con atti simbolici che hanno testimoniato un reale deterioramento delle relazioni. Certo, Biden ha annunciato di voler rilanciare il dialogo con Iran e per farlo perderà una quota di simpatie in Israele e la portata degli Accordi di Abramo potrà essere rivista. Di fatto formalizzano un rapporto con gli Emirati Arabi, già esistente, ma in chiave anti-Iran: è prevedibile che saranno smussati i toni potenzialmente ostili che questi accordi possono avere. Sarà un gioco di equilibrismo, ma potremo capire meglio cosa succederà quando sapremo chi saranno i collaboratori stretti di Biden, in particolare il Segretario di Stato e delle Difesa. Un tentativo di apertura all’Iran ci sarà, tenendo anche conto che nel 2021 a Teheran si voterà per le presidenziali e Hassan Rouhani non potrà ricandidarsi: vedremo se sarà sostituito da un presidente dialogante o da un nuovo Ahmadinejad.»

 

Quanto alla politica economica, si dirà addio allo slogan America First, con la centralità del tessuto produttivo americano rispetto all’import? Che ne sarà dei dazi, anche con l’Europa?


Gianluca Pastori: «Premesso, come detto, che la vera differenza potrebbe riguardare soprattutto lo stile, con toni più pacati, non si può nascondere che l’amministrazione Biden non potrà rappresentare la svolta che molti Paesi europei invece si aspettano. Questo perché da almeno 20 anni gli interessi statunitensi ed europei si sono allontanati di molto, ci sono pochi motivi per “stare insieme” e diverse cause di contrasto sotto traccia. La competizione commerciale con l’Europa, dunque, dovrebbe rimanere, con una politica economica statunitense che rimarrà presumibilmente filo americana. Lo stesso varrà per i contrasti sull’utilità della Nato, ritenuta troppo costosa per il contribuente americano rispetto agli investimenti europei. Quanto ai dazi, non è detto che siano annullati o cancellati. In realtà anche per Trump non erano uno strumento fine a se stesso, allo scopo di “punire” l’avversario commerciale, quanto piuttosto un mezzo per convincere la controparte a sedere al tavolo dei negoziati, dove poi usarli come forma di pressione. Certo, il Presidente uscente lo ha fatto in modo ostentato, ma non credo che Biden ci rinuncerà completamente.»  

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