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Identità e miti

Origini e varianti. La cucina italiana spiegata da Massimo Montanari

La parola al grande storico, Presidente del Comitato Scientifico per la candidatura della cucina italiana alla lista del patrimonio immateriale dell’umanità

Origini e varianti. La cucina italiana spiegata da Massimo Montanari

La cucina italiana è stata candidata alla Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO. La candidatura, che è stata presentata dal Ministero della Cultura, rappresentato dal Ministro Gennaro Sangiuliano, e dal Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, rappresentato dal Ministro Francesco Lollobrigida, ha subito fatto discutere e ha sollevato critiche a livello internazionale: cosa c’entra la cucina con la cultura? Perché la cucina italiana sì e le altre no? Secondo alcuni addirittura la cucina italiana non esisterebbe, sarebbe un mito per turisti oppure sarebbe semplicemente riducibile a una questione di marketing. Passato il polverone, abbiamo pensato di parlarne con Massimo Montanari, tra i massimi storici dell’alimentazione, professore all’Università di Bologna e autore di numerosi libri sull’argomento, che del Comitato Scientifico per la candidatura all’Unesco è il Presidente.

 

Professor Montanari, che cosa significa candidare la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità?

L’Unesco si occupa di cultura e di educazione. La lista del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco si riferisce a saperi, rappresentazioni, espressioni che fanno parte del patrimonio culturale di una comunità, ed è di questo che stiamo parlando. È chiaro che riconoscere la cucina come elemento del patrimonio immateriale porta inevitabilmente anche a parlare di tortellini e di zucchine, però solo in funzione dei gesti, della ritualità sociale, dei pensieri che ci stanno dietro. È quindi legittimo parlare di prodotti o di ricette e della loro origine, ma ai fini della candidatura Unesco noi ne parliamo in una prospettiva diversa, che è quella culturale e, appunto, “immateriale”.

 

Lei ha appena pubblicato un libro, “Il mito delle origini”, che racconta la storia degli spaghetti al pomodoro come piatto fortemente identitario della cucina italiana. Lei però mostra che, interrogandosi sulle origini di questo piatto, si è obbligati a uscire dal contesto italiano per ritrovare altrove, in altre culture, in altri paesi, le premesse che consentono a quel piatto di nascere. Questo significa abbandonare l’idea che esista un’identità “italiana” della cucina?

Assolutamente no. Al contrario, io insisto sul fatto che le identità sono frutto della storia e sono determinate non tanto dalle origini delle cose quanto dagli incontri che queste cose fanno, arricchendosi e modificandosi strada facendo. L’identità è legata ai luoghi in cui le cose e le idee trovano accoglienza, più che ai luoghi di origine. Se gli spaghetti al pomodoro presuppongono la pratica di seccare la pasta, introdotta in Italia dagli arabi nel Medioevo, e l’arrivo dall’America del pomodoro, che gli spagnoli diffondono in Europa sotto forma di salsa per accompagnare i piatti di carne, è però solo in Italia che si sperimenta (non prima dell’Ottocento) l’abbinamento di quella salsa con gli spaghetti.

Le origini, le “radici” di quel piatto viaggiano nel tempo e nello spazio prima di diventare un simbolo dell’identità italiana. Secondo me la forza del messaggio è proprio questa: senza costruire mitologie, valorizzare ciò che storicamente ha costruito la straordinaria varietà della cucina italiana. La ricchezza di questa cucina è legata alla quantità di culture, di popoli, di esperienze che si sono sovrapposte nel corso del tempo. Questa pluralità di esperienze ha creato in Italia una diversificazione straordinaria nei modi di fare cucina, che, nonostante alcuni piatti siano diventati icone nazionali, continuano a essere molto caratterizzati sul piano locale e territoriale. 

 

È questa la cifra specifica e distintiva che rende la cucina italiana meritevole di intraprendere un percorso di riconoscimento Unesco? Perché l’Unesco dovrebbe interessarsi di queste cose? 

A volte mi chiedono: a cosa serve il riconoscimento Unesco alla cucina italiana che è già tanto famosa? Non è questo il problema. Secondo me la domanda va rovesciata: a cosa può servire all’Unesco promuovere l’immagine della cucina italiana? Uno dei criteri che guidano candidature come questa, relative al patrimonio culturale immateriale, è che esse abbiano un senso, un valore, non solo rispetto alle comunità che vivono e praticano quell’esperienza, ma anche rispetto all’universo mondo. Certo le esperienze sono sempre localizzate, però in qualche modo esse devono “uscire” dalla loro localizzazione. La cucina italiana, di cui stiamo parlando, è cresciuta e si è costruita storicamente attraverso un processo che chiamerei di condivisione delle diversità, nel senso che non esiste un modello unico di cucina italiana, poiché essa si articola in centinaia, forse migliaia di diversità locali: e sono queste specificità locali a costituire la vera sostanza di quella che chiamiamo cucina italiana.

 

Qualcuno potrebbe obiettare che la cucina italiana non esiste, visto che è solo la somma delle diverse culture locali.

L’errore, qui, sta nell’usare il concetto di “somma”, perché la cucina italiana non è una somma: è una “moltiplicazione”. Se prendi tante cose diverse e le moltiplichi fra di loro, il risultato è straordinariamente ricco. E io penso che proprio questa sia la cifra distintiva della cucina italiana: non tanto la sua bontà, che diamo per scontata, e neppure il fatto di essere migliore di altre, perché questo ha a che fare con i gusti individuali e collettivi e può sempre essere messo in discussione; in realtà ciò che qualifica la cucina italiana è proprio la straordinaria differenziazione locale delle esperienze.

Per cui non solo i prodotti, non solo le ricette, ma i pensieri - che stanno dietro i modi di preparazione e tutto quello che si fa rispetto alla cucina - sono diversi da luogo a luogo. Ma al tempo stesso, paradossalmente, sono uguali dappertutto, perché fondamentali nel modo che gli italiani hanno di pensare e rappresentare sé stessi: ovunque, il cibo si lega a quello che io amo chiamare “sentimento dei luoghi”. Un sentimento che è articolato in ogni luogo in modo diverso ma che è comune a tutti gli italiani nella loro diversità. Io penso che questo sia bello da proporre all’Unesco: il fatto che una cultura molto forte, molto riconoscibile, molto apprezzata è riuscita a costruire la sua solidità non sul principio di omogeneità (fare tutti le stesse cose) bensì sul mettere insieme, confrontare, moltiplicare, fare interagire tutte le diversità.

 

Quando è nato questo modello culturale?

Il modello della cucina italiana non è nato adesso ma è storicamente molto antico: io lo ritrovo già nel Medioevo e nel Rinascimento. Fin da allora c’è questa condivisione di saperi e di valori, c’è il comune sentimento di un rapporto forte con il cibo che ti rappresenta. Ecco, io credo che dal punto di vista della convivenza civile, dal punto di vista etico, dal punto di vista politico se vogliamo, questo principio di condivisione, questa volontà di condivisione delle diversità rappresenta un modello forse non unico ma certo originale, importante da far conoscere a chi continua a confondere la cucina italiana con un piatto di spaghetti o con la pizza, o con la fetta di salame o il parmigiano da grattugiare. Occorre far capire che dietro tutto ciò esiste una cultura della diversità, del confronto e dello scambio, che nel tempo ha saputo costruire questo patrimonio.

Uso spesso una metafora: la cucina italiana è un mosaico. Un mosaico è un insieme di centinaia di tessere diverse, ognuna delle quali è sé stessa, e però tutte insieme compongono un’immagine compiuta e coerente, che non è presente in nessuna delle singole tessere ma va oltre, trascende la singola tessera; questa modalità - che appunto è un fatto di cultura - non è una somma di elementi singoli, ma un modo di pensare le cose che consente di metterle insieme e farle interagire. Questa modalità, con cui la cucina italiana si è costruita nel tempo, io credo che sia un bell’esempio da proporre. Il motivo per cui ho accettato di presiedere il Comitato Scientifico per la candidatura della cucina italiana all’Unesco è esattamente questo, e credo che sia un valore forte.

 

Da una parte ci sono la creatività e tutte le varianti delle ricette, che nascono dall’incontro tra culture, situazioni ed esperienze degli italiani. Dall’altro lato c’è il desiderio della codificazione, cioè di mettere per iscritto quelle ricette e definirle, anche per tramandarle. Come possono stare insieme questi due aspetti? 

Nel momento in cui un personaggio come Pellegrino Artusi decide di scrivere un ricettario per gli italiani (siamo nel 1891, e quel ricettario sarà il libro di cucina più importante dell’Italia moderna), non spiega come si “devono” fare le cose ma solo come le fanno le persone da lui incontrate, sia nelle case, sia nelle trattorie: cucina di casa e cucina pubblica, domestica e professionale. Artusi cioè si limita a raccontare quello che si fa e non ha alcuna ansia di codificare le ricette. Questo è un altro argomento secondo me fondamentale: proporre la cucina italiana per una candidatura Unesco non significa codificare delle ricette, perché questo sarebbe esattamente il contrario di quello che la cucina italiana è nella sua essenza. La cucina italiana è una cucina di libertà e di varietà, di incontri e di diversificazioni: la tua ricetta è sempre diversa dalla mia. E allora ci si chiede: qual è migliore? E si apre il dibattito.

 

Questa è una cosa che colpisce molto gli stranieri: il fatto che gli italiani parlano sempre di cibo…

Gli italiani parlano sempre di cibo, spesso litigano sul cibo, perché hanno un rapporto con il cibo molto personale e intimo. Vogliamo dire “viscerale”? Gli italiani raccontano sé stessi attraverso la cucina, e di questo ci sono esempi straordinari. Uno dei più commoventi è quando vediamo che durante la prima guerra mondiale dei soldati italiani, fatti prigionieri e reclusi lontano dal loro paese, per sollevarsi un po’ il morale si mettono a scrivere dei quaderni in cui raccolgono le ricette di casa. Scrivono dei quaderni di cucina! E non lo fanno mai, anche in quel caso estremo, in modo autoreferenziale: non è che ciascuno si mette lì e scrive le sue ricette, l’atteggiamento è sempre quello della condivisione collettiva. Questi soldati si riuniscono e ognuno racconta le sue cose, e con mani diverse scrivono dei quaderni dove si accumulano esperienze diverse, si condividono esperienze e affetti. È un modo per sentirsi vivi, è un modo per sentirsi ancora legati alla propria terra, al proprio paese, alla propria famiglia. Non credo che questo sia ovvio: credo che questo dipenda dal fatto che gli italiani hanno sempre amato rappresentarsi attraverso i gesti quotidiani, attraverso la cultura in tutte le sue forme.

Cultura è l’arte, è la letteratura, è la musica, è il teatro ed è anche la cucina: certo un tipo di cultura più presente nella vita della maggioranza delle persone, perché si tratta di un gesto necessario alla vita quotidiana, ma in ogni caso è anche questo un gesto pienamente culturale, che significa appartenenza, significa memoria. Queste, come ho già detto, non sono caratteristiche esclusivamente italiane, perché tutte le culture hanno un rapporto fortemente identitario con i propri usi culinari; ma quello che è tipico del modello italiano è - ripeto - il fatto di non avere un modello omogeneo di riferimento, ma di avere costruito un sentire comune attorno alla condivisione dei sentimenti e delle pratiche, dei gesti, dei rituali.

 

Allora si può dire che la cucina italiana è non solo luogo di confronto e discussione tra visioni e culture differenti, ma anche modello di convivenza civile?

Non voglio fare della poesia, però quello che rende interessante una discussione culturale sulla cucina italiana è che è un modello di cui vale la pena di parlare perché è interessante come modello di convivenza civile. Gli italiani a tavola dopo cinque minuti, anzi dopo due minuti già stanno discutendo di cibo, su come si fanno le cose, sulle varianti che farebbero e che conoscono, ciò accade perché tutti vivono il proprio rapporto col cibo in questa maniera, e il fatto che discutano e a volte litighino significa che si confrontano.

C’è un aspetto positivo nel litigare: tu non litighi con qualcuno su una cosa che non ti interessa e non litighi su una cosa che non conosci. Se dici “no, ci devi mettere quel salume lì e non quel salume là, questa verdura qui e non quella verdura là”, vuol dire che conosci quello che fa l’altro. È questa la cultura del confronto. Una cultura che si ritrova in Pellegrino Artusi, che racconta le ricette italiane senza dire “questo è meglio” o “bisogna fare così, bisogna fare cosà”. Anzi in tanti casi dice “io faccio così perché mi piace così, se voi avete gusti diversi fate diversamente”: dietro l’angolo, anzi davanti all’angolo c’è sempre l’ipotesi della variante. 

La variante è l’elemento decisivo della cucina italiana, ed è una cosa che si ritrova da secoli, fin dal Medioevo e dal Rinascimento. Come storico io sono interessato a capire il passato (oltre che il presente) e vedo che nella cultura italiana del Quattrocento e del Cinquecento ci sono esattamente questi tipi di atteggiamento nei confronti del cibo, cioè condividere le esperienze, provare cose differenti senza mai dire “questo è meglio” o “questo è peggio”, perché si pensa e si agisce sempre attorno al tema della diversità. Questo tipo di cultura esiste da secoli ed è per questo che la candidatura della cucina italiana come patrimonio Unesco insiste sull’argomento della biodiversità culturale.

 

Lei dice che è sempre stato così, eppure è stato detto che la cucina italiana non esiste prima del secondo dopoguerra, perché un’Italia povera (come quella arrivata fino agli anni Sessanta del Novecento) non sarebbe stata in grado di avere tradizioni in cucina e di sceglierne gli ingredienti.

Questo non mi sembra vero, per almeno due motivi. Il primo è che anche i poveri hanno una cultura, un gusto, e l’obiettivo di mangiare nel migliore modo possibile. Un mio collega francese usa un aggettivo, “miserabilista”, per definire questo tipo di visione del passato e della povertà come un tempo e un mondo di affamati. Anche nel mondo della fame esiste una tradizione gastronomica. Certamente ci sono dei momenti difficili, ma al di là di questi si costruiscono comunque dei modelli di gusto. Ma poi non si tratta solo di questo: se anche volessimo riservare ai ricchi il gusto del cibo (cosa su cui io ho dei forti dubbi) non si può dimenticare che la loro competenza in fatto di cucina è da secoli strabiliante anche nella tradizione italiana, voglio dire degli italiani, che esistono ben prima dell’Italia se li pensiamo come partecipi di una “rete” culturale come quella che da secoli caratterizza il nostro paese, a prescindere dall’appartenenza politica a questo o quello Stato. Quando ad esempio mi trovo di fronte un ricettario del Cinquecento come quello di Bartolomeo Scappi, ho davanti a me un testo con una densità e profondità di cultura gastronomica straordinaria, che forse non si trova in nessun manuale di cucina odierno: questo significa che la cultura del cibo ha dei secoli dietro di sé. E non si può certo dire che gli italiani imparano a cucinare solo nel secondo dopoguerra, o magari che imparano a cucinare dagli altri, perché nel Quattrocento e nel Cinquecento la cucina italiana era già estremamente sofisticata, elaborata, approfondita.

 

C’è quindi una storia della cucina italiana delle classi povere e della cucina italiana delle classi ricche. Sono due storie diverse?

Un altro fatto che osservo sempre e che mi sembra essenziale è che in questo mondo del lusso e del privilegio sociale, quello dei signori del Rinascimento a cui parlava Scappi, quello dei borghesi dell’800 a cui si rivolgeva Artusi, i modelli di cucina non sono veramente separati dalla cultura popolare: al contrario, le cucine delle classi alte hanno un rapporto molto forte con la cucina popolare. L’esempio di Artusi è illuminante: lui, nell’Ottocento, col suo ricettario si rivolge alla borghesia cittadina, ma nelle sue ricette c’è una fortissima dimensione popolare, soprattutto contadina e in parte anche cittadina. Tante ricette appartengono all’universo popolare, sono magari le ricette della festa. Poi esse vengono filtrate dai ceti “agiati” - come li chiama Artusi - e però mantengono un rapporto importante con il mondo di origine. Il motivo per cui Artusi non ha avuto successo solo tra le “classi agiate” ma anche fra i contadini - nel corso del ’900 il suo ricettario è diventato il manuale di cucina più presente nelle case popolari d’Italia, e tanti contadini usano regalarlo alle figlie che si sposavano - è che il mondo contadino e più in generale le classi popolari riconoscevano in quel manuale pezzi importanti della propria cultura. Tengo a sottolineare che la prima riga della prima ricetta di Artusi - le prime righe con cui comincia il suo ricettario - dicono: “Lo sa il popolo e il comune come si fa il brodo...”. Cioè Artusi comincia la ricetta - la prima del libro, e sembra quasi un manifesto - dicendo che il popolo e la gente comune queste cose le sanno già benissimo. In questo modo si individua nella cucina italiana un nesso forte di natura sociale, oltre che territoriale.

La cucina italiana cresce come condivisione delle diversità su un piano geografico, mettendo in gioco il territorio il tutte le sue articolazioni. Ma cresce anche come condivisione di realtà sociali diversificate, mettendo in gioco cultura contadina, cultura borghese, cultura aristocratica. Ecco un altro motivo della straordinaria biodiversità culturale di questa cucina, ed ecco perché la si può definire veramente “nazionale”: perché tutti, direttamente o indirettamente, in qualche modo hanno contribuito a costruirla nel corso del tempo. Si tratta di una condivisione non solo orizzontale, cioè geografica, territoriale, ma anche verticale, sociale. Da questo importante contributo della cultura popolare nasce l’altro punto forte su cui insiste la candidatura della cucina italiana come patrimonio Unesco: la sostenibilità, perché evidentemente le classi umili devono, per forza, utilizzare le risorse nel modo migliore e totale, badando bene che non si esauriscano e che durino nel tempo. Voglio sottolineare che questa complicità fra culture socialmente diversificate non si osserva solo nell’Ottocento, nel libro di Artusi e altrove, ma si trova anche - e sorprendentemente - nei testi medievali e rinascimentali: anche in questo caso i testi si rivolgono a un pubblico di élite ma fanno riferimento alla cultura della gente comune.

Un esempio: Bartolomeo Scappi, il più grande cuoco della storia italiana, che scrive nel 1570, in vari casi scrive frasi come “questa ricetta l’ho imparata dai pescatori a Chioggia” oppure “l’ho imparata a Venezia al mercato del pesce”. È ovvio che nel momento in cui quella ricetta passa sulla tavola di una corte aristocratica si modifica, si arricchisce, si elabora, però dietro quelle ricette noi sentiamo la presenza dei cuochi sul mercato, in mezzo alla gente, e la volontà di mettere a frutto sulla tavola dei ricchi anche le esperienze e la cultura popolare.

 

C’è quindi un rapporto molto intenso tra la cucina delle diverse classi sociali e dei diversi territori, di reciproco scambio e condivisione, nonostante la frammentazione politica dell’Italia.

È per questo che io parlo di cultura italiana anche per secoli come il Quattrocento o il Cinquecento, perché già allora vedo questa condivisione di esperienze su base territoriale, da Napoli a Milano, da Venezia a Genova a Palermo. Le corti aristocratiche si scambiano le esperienze, i cuochi viaggiano e ciascuna di queste esperienze “alte” mantiene un rapporto con le proprie “basi” locali. Per questo la cucina italiana si delinea come esperienza collettiva, comune: c’è qualcosa che va dal basso verso l’alto, e già questo è dal punto di vista metodologico una annotazione importante, perché se l’imitazione di quello che fanno le classi dominanti è una pratica normale e abbastanza ovvia, un po’ meno ovvia è la volontà delle classi alte di mettere a frutto i saperi che vengono dal basso. Questo secondo me è un aspetto abbastanza caratteristico della tradizione italiana, non unico forse, ma certamente caratteristico, legato al fatto che nella storia italiana l’importanza politica, economica, culturale delle città contribuisce a tenere insieme questi mondi, perché le città sono spazi di incontro, di mescolamento, di ibridazione fra culture diverse.

 

La candidatura della cucina italiana alla lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco dunque insiste sui concetti di biodiversità e sostenibilità. Sono concetti antichi o moderni?

Sostenibilità è un concetto moderno, attuale e necessario, ma nel caso dell’Italia si ritrova storicamente proprio in relazione alla dimensione popolare di questa cucina, che, all’interno di un patrimonio gastronomico molto ricco, articolato, differenziato, non a caso ha come punti fermi degli elementi come la pasta, le minestre, le verdure, cibi tipicamente popolari. Poi rielaborati quanto si vuole - oggi dai cuochi dei grandi ristoranti, un tempo dai cuochi delle grandi famiglie - ma ciò non toglie che la presenza di verdure, di cereali, di minestre sia una costante di questa cucina, che dura nel tempo e crea il nesso alto-basso di cui abbiamo parlato.

Quanto alla biodiversità, dobbiamo tenere presente che non è solo una biodiversità materiale, ma è anche e soprattutto una biodiversità culturale, cioè una diversità di atteggiamenti, di gusti, di costumi. Essa non è un dato “naturale”, anche se nel caso dell’Italia è sicuramente favorita dalla natura di un paesaggio molto diversificato, con dei climi e microclimi che cambiano continuamente, il che si traduce in una biodiversità anche naturale. Poi però la biodiversità bisogna curarla, o anche inventarla, e qui non si tratta più di geografia ma di storia, cioè di creazioni dell’uomo. Se parliamo della cultura del cibo, la biodiversità dei formaggi non sta nella natura, ma nel modo in cui gli uomini sanno manipolarli e prepararli: una cultura come quella italiana, caratterizzata da centinaia di varietà di prodotti, più ancora che ai prodotti è legata alla fantasia, ai saperi e alle tecniche, alle abitudini, alle tradizioni che in ogni luogo si sono sviluppate. E dalla grande diversificazione delle realtà a un certo punto nascono le eccellenze. Come è dimostrato, il genio non nasce nel deserto ma dove c’è un’alta e diffusa scolarità.

L’eccellenza nasce quando c’è una sottostante ricchezza di cose “normali”. È la normalità italiana che noi stiamo candidando all’Unesco: non l’eccellenza di questo o di quel prodotto, ma la bontà e la diversificazione delle tantissime cose e delle tantissime idee che attorno a quelle eccellenze ruotano, e che hanno consentito di realizzarle.

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