EditorialiOpinioniAnalisiInchiesteIntervisteScenariFirme
Il caso Grillo

Il ‘virus’ della misoginia che l’Italia non riesce a debellare

La difesa del figlio coinvolto in un caso di stupro: quelle parole ‘irripetibili’ affidate ai social e la pericolosità del messaggio dell’uomo pubblico

Il ‘virus’ della misoginia che l’Italia non riesce a debellare

Vergogna? Indignazione? Stupore? Le parole scomposte di Beppe Grillo, la furia misogina di questo padre e politico ferito nell’orgoglio, che arringa il popolo in una difesa indifendibile, provoca i sentimenti più disparati. Tante cose colpiscono del video mandato sui social dall’ideatore del M5S. Il figlio è accusato di stupro, insieme ad altri tre ragazzi, nei confronti di una studentessa di diciannove anni. Che come nella retorica più antifemminista diventa la ‘colpevole’, quella a cui non si può credere perché ha sporto denuncia otto giorni dopo. Frasi deliranti quelle di Grillo, che dopo questo episodio è veramente difficile definire leader.

 

Cosa colpisce di più dello show del comico prestato alla politica? Soprattutto un fatto: esiste un retaggio culturale in questo Paese che come ‘un morbo virulento’ si insinua negli strati più profondi delle coscienze e delle menti e che, quando meno te lo aspetti - anche nelle persone più insospettabili - riemerge in superficie. Un virus che abita indisturbato, ancora, nel nostro tessuto sociale. Sono decenni che andiamo ripetendo che la disuguaglianza tra uomo e donna e la violenza di genere sono figlie di un’eredità ideologica antica, radicata, profonda.

 

Nemmeno la Costituzione - entrata in vigore nel 1948 e che all’articolo 3 sancisce l’’uguaglianza e la pari dignità di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di sesso’ e all’art 29 che il matrimonio dovesse essere basato sull’ ‘uguaglianza morale e giuridica dei coniugi’ - riuscì a infrangere il muro dell’inferiorità della donna, a cambiare d’emblée il retaggio del Paese. Mentre la Carta ‘avanzava’ il Codice civile del 1942 era ancora in vigore, figlio del ventennio fascista in cui la donna doveva essere ‘sposa e madre esemplare’. Il lavoro fuori di casa delle donne italiane era considerato elemento di destabilizzazione sociale perché le distraeva dai doveri legati alla famiglia. L’art. 144 del Codice così stabiliva: “Il marito è il capo della famiglia, la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

 

La Costituzione, oltre che con il Codice civile, si scontrava con quello penale, il Codice Rocco del 1930. Pensiamo al ‘delitto d’onore’ rimasto in vigore fino al 1981, o all’umiliazione del ‘matrimonio riparatore’. Testi abrogati solo quarant’anni fa mentre la violenza sessuale diventava reato contro la persona, smettendo di esserlo contro la morale, solo nel 1996. Praticamente ieri. Anche la riforma del diritto di famiglia del 1975, che pure ha cambiato irreversibilmente insieme alla legge che ha introdotto il divorzio, il volto delle famiglie e della società, non ha vinto del tutto la battaglia.

 

Tante leggi nell’Italia repubblicana hanno segnato il cammino delle donne fino ad oggi: sul lavoro, per il salario, per accedere agli impeghi pubblici più elevati, compresi gli incarichi prefettizi e in magistratura, per l’abolizione delle ‘clausole di nubilato’. Ma c’è qualcosa che la legge non è stata in grado di fare e che da sola non può cambiare: è la mentalità delle persone, se esse non vengono educate ad un reale rapporto di uguaglianza tra uomo e donna.

 

Da qui, due considerazioni amare sulle parole irripetibili di Grillo. La prima, è che scuote l’idea di uomini politici che hanno avuto la pretesa di cambiare moralmente il Paese e che sono così tanto imbevuti di maschilismo e misoginia. Non è in discussione il dolore di padre, che forse però farebbe bene a porsi delle domande sull’educazione dei propri figli. E non si venga nemmeno a parlare di ‘sfogo’, come qualcun lo ha definito. Esiste una dimensione composta del dolore, specie di un uomo pubblico: Grillo lo è, anche se non ha incarichi istituzionali. E che poi un dramma familiare debba esprimersi attraverso il proprio potere di influenza per redimersi non è accettabile, specie da parte di chi ha fatto del giustizialismo la sua bandiera. La seconda riguarda la pericolosità del messaggio. Che - proprio perché proviene da un uomo con potere mediatico - contagia le coscienze delle persone culturalmente e socialmente più fragili, prive di spirito critico o di punti di riferimento. E nutre un pensiero malato che vede la donna ancora su un gradino inferiore, o peggio, come un oggetto.

 

Se la Procura di Tempio Pausania deciderà per il rinvio a giudizio del figlio di Grillo e degli altri tre accusati di stupro, ci sarà un processo e la giustizia farà il suo corso. Ma su tutto il resto c’è un problema che riguarda l’educazione e i valori culturali su cui improntare l’esistenza. C’è da chiedersi quanto dannoso sia per i giovani di oggi essere difesi ad ogni costo dai genitori. Quanto dannoso sia comunicare che ‘quella lì’ doveva denunciare subito altrimenti non è credibile.

 

Il mondo politico, il centrodestra come il centrosinistra, ha condannato le parole di Grillo. E anche nel M5S si è levata la voce della deputata pentastellata Federica Daga: “Con le parole di Beppe”, dice, “ho rivissuto il mio dramma”. Lei ha subito violenza ed è in causa da cinque anni per ottenere giustizia. Per questo il nostro pensiero doverosamente va a quella studentessa di diciannove anni, che ha denunciato, che ha avuto la forza di farlo. In un Paese in cui il ‘morbo’ ancora non è estirpato.

COPYRIGHT THEITALIANTIMES.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA