A Milano tendiamo a informarci su chi ci sta di fronte almeno una volta; cerchiamo di capire chi sia. Per interesse, forse, per curiosità, per snobberia, metteteci quel che volete, ma ci proviamo. Se poi non funziona chi s’è visto s’è visto, grazie infinite e arrivederci, ma almeno non nutriamo rimpianti. Vivereeee/senza più gelosia l’ha scritta Bixio che era napoletano, ma la versione più autentica è quella di Enzo Jannacci, per dire.
Per questo mi ha fatto parecchio specie, l’altra sera, la gran corsa di romani del centro storico e di quella Roma nord che vorrebbe sempre tantissimo tutto ma non sempre riesce a prenderselo all’apertura della mostra di Giovanni Gastel al Maxxi.
Grand seigneur abilissimo ad ammantare ogni cosa di grazia come tutti i grandes seigneurs e come era il suo famosissimo zio Luchino Visconti che immancabilmente tutti evocano, “il Gastel”, appena appesantito dagli anni ma sempre sorridente e affabile, ha affisso nel grande spazio al primo piano della palazzina prospiciente il palazzone di Zaha Hadid i ritratti di molta gente che gli piace. People I like, quasi esclusivamente in bianco e nero come piace a lui. Fra questi ci sono quasi tutti i direttori con cui ha collaborato, al presente ma anche nel passato e questo gli fa onore (mi ha molto intenerito il ritratto di Fabrizio Sclavi, scattato forse ai tempi della direzione di Vogue Germania o di Amica, chissà, gliel’ho detto e abbiamo rivangato i vecchi tempi con un accenno di sorriso mesto che ci siamo subito cancellato dalla faccia), molti signori con cui ha realizzato campagne, da Diego Della Valle e Remo Ruffini di Moncler, ma ci sono anche sciure milanesi para-nullafacenti, politici, designer, cantanti, musicisti.
La mostra durerà parecchi mesi, come ormai accade sempre in questi tempi di Covid dove tutto è una fatica e una conquista e dunque una volta ottenuto il risultato vale la pena di conservarlo, ma sono sicura che, una volta riconosciuti i dieci, quindici personaggi notissimi, da Barack Obama a Bebe Vio, una volta approvato in via del tutto teorica l’incipit dell’esposizione con un cenno del capo (“fotografare è una necessità e non un lavoro. Rendere eterno un incontro tra due anime mi incantae mi fa sentire parte di un tutto”), i romani vagheranno per le sale dicendosi, al massimo, quanto meravigliosi siano quegli scatti, senza mai voler sapere, figurarsi conoscere, i legami che intercorrono non solo fra Gastel e i suoi soggetti, ma fra i soggetti stessi. Vi compaiono ex amanti di cui nulla si sa, vecchie famiglie, designer che hanno trasformato i salotti e le cucine di milioni di persone ma senza troppo strepito (sì, Piero Lissoni, parliamo di te), pr senza più fortune ma circondati di molto affetto. Storie umane, gente unita da mille fili che prendono vita in un arazzo millefleur solo se si desideri conoscerne la storia. E nella Roma me rimbarza, questo non si desidera.
L’unico sentimento che ho visto formarsi nella mente e splendere negli occhi dei visitatori famosi, famosini e vorreimanonposso dell’altra sera è stato “e adesso anche io”.
Gastel avrà mille nuovi clienti, nessuno dei quali, o pochissimi, riusciranno a raggiungerlo nel “mondo di chi mi ha trasmesso qualcosa, insegnato, toccato l’anima”, eppure a poco a poco Milano riuscirà a recuperare il ruolo che mesi di gestione dissennata del Covid le hanno tolto, quell’aura di familiarità operosa che è stata appannata dai Gallera, dai Fontana, da quella gente che la città cerca di buttarsi alle spalle, con i loro bonifici, i loro traffici dappoco, la loro aria inadeguata di milanesi “de fora”, arrivati dalla provincia. Anche a non voler conoscere nessuno di quei volti, anche a non voler leggere le didascalie e le targhe, è difficile non percepire il rigore trattenuto e un po’ pudico che Gastel vi ha impresso. Quel senso di milanesità che non travalica mai, ma che è anche affettuosa e ridanciana e che non muore mai ma si evolve negli anni e nei secoli, tanto che la ritrovate uguale nei pensieri e nelle lettere di Stendhal come nel più delizioso dei libriccini stampati di recente da Bompiani, “Io e l’asino mio”, autobiografia della famiglia Crepax per mano e voce dei suoi componenti, guidati da Valentina Crepax, che per tutta la vita, dai tredici anni al luglio scorso, quando è scomparsa a soli 68 anni e ancora non me ne capacito, ha dovuto lottare con quelli che, “una volta scoperto il mio nome, viaggiano rapidi sul mio corpo e non trovando stivali di cuoio nero, calze a rete, chiappe in vista, nulla che gli ricordi lei, quella finta, l’altra, si sentono defraudati di qualcosa”.
Il librino è davvero un amore, certamente per chi ha conosciuto i Crepax, Guido il disegnatore (che però aveva conservato il cognome nella grafia post-giolittiana Crepas) e Franco il grande discografico, padre di Valentina e marito “della Luciana” straordinaria traduttrice; ma a occhio e croce dovrebbe piacere a tutti, perché è difficile non appassionarsi alle vicende di quella famiglia così eccentrica e crudele, così divertente e allargata negli amori e negli affetti, in una parola così radical chic quando la definizione non era un’offesa (anzi, quando in realtà nemmeno esisteva). Ma nelle tante recensioni che ho letto in questi giorni, ho capito che a tutti i non milanesi di vecchia data sfugge il significato del titolo. Io e l’asino mio non è uno slogan e nemmeno una trovata dell’ultimo minuto. Identifica, invece, il lessico famigliare di quella “certa Milano” di una volta, quella dove le vanità personali non erano ammesse, e gli egoismi un peccato imperdonabile. L’io non esisteva, e la prima cosa che ti veniva insegnata era la corretta disposizione degli attori dei tuoi racconti: “il mio amico e io”, “la mamma e io”. Io per ultimo, mai per primo. Al primo sgarro, arrivava l’asino: “Io io e l’asino mio”. Adesso, non arriva più. E gli asini sono diventati i genitori.