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Il linguaggio dimenticato

La visione della pace è dei profeti, da Isaia a Martin Luther King

Dobbiamo avere un sogno: vedere bambini israeliani e palestinesi intrecciare girotondi sulla linea di confine di due Stati sovrani, liberi e amici

La visione della pace è dei profeti, da Isaia a Martin Luther King

Erich Fromm pubblicò nel 1951 The forgotten language – il linguaggio dimenticato. Il sottotitolo in italiano recita: una introduzione alla comprensione di sogni, favole e miti. L’autore definisce il linguaggio dimenticato: "una lingua vera e propria, e in effetti l'unico linguaggio universale che la razza umana abbia mai creato".

 

La mentalità razionalista non può che disprezzare il linguaggio dei sogni. La matematica finanziaria impera ed ha asservito a sé molti altri ambiti, iniziando dalla politica, avvicinandosi così alla sfera delicata della libertà degli uomini e delle donne del pianeta. Ogni forma di pragmatismo tende ad assoggettare all’attivo di bilancio ogni altro parametro. In numerosi film su Cosa nostra o altre mafie, la frase finale del killer prima di sparare a morte al malcapitato è: “Niente di personale”. È solo business, questione di affari. Negli affari gli ostacoli vanno rimossi per favorire il massimo utile possibile. Purtroppo questa mentalità tocca potentemente molte culture del pianeta. Ben al di là della sola cultura occidentale, i sognatori non hanno vita facile, il loro linguaggio è giudicato illusione. Le parole “sognatore”, “utopista”, “visionario” indicano una persona illusa, che non sa come vivere, che non è destinata al successo e difficilmente diventerà ricca.

 

Eppure nell’Antico Testamento il profeta era chiamato nabì – visionario. Il termine a noi più noto, profeta, viene dal greco ph?mí ‘dico’, col prefisso pro: dire al posto di qualcuno, cioè parlare in nome di Dio. Nell’origine biblica, tuttavia, l’ambasciatore di Dio è un uomo che, prima di parlare, guarda lontano, gode di visioni. Così ci viene narrata la grande visione iniziatica del giovane profeta Isaia (Is 6,1-8). Questi vede Dio nell’alto dei cieli, seduto sul suo trono di gloria. Crede di essere perduto, perché nessuno può guardare in faccia Dio e restare vivo, si ritiene un uomo dalle labbra impure, appartenente a un popolo dalle labbra impure. Ma Dio manda un suo angelo con un carbone ardente preso dal braciere che perennemente gli arde ai piedi e purifica le sue labbra. Poi s’ode una voce potente dal cielo, da Dio: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Il giovane Isaia risponde: “Eccomi, manda me!”: il profeta è inviato ad incarnare nella storia del suo popolo la visione ricevuta. E in effetti la prima sensazione di Isaia, l’infinita distanza che separa il Dio trascendente dall’uomo povero e fragile segnerà tutta la vita e la teologia del profeta.

 

Il Dio altissimo, irraggiungibile, scende tra i suoi figli peccatori e si fa “Im – manu – el – Dio – con - noi” – Emanuele. La visione del giovane Isaia informa direttamente i primi 39 capitoli del vasto libro profetico e forma una scuola profetica: da questa verranno fuori altre due parti del libro di Isaia, chiamate “secondo Isaia” (capitoli 40 – 55) e “terzo Isaia” (capp. 56-66). Un libro potente, che innerva attraverso i secoli la cultura d’Israele e quella cristiana: niente male per un giovane “visionario”.

 

Oltre la profezia biblica, la storia ci ha rivelato profeti “non togati”, persone che, credenti o no, hanno sognato e servito l’umanità grazie a questi sogni. Forse al lettore è già venuto in mente il nome di Martin Luther King.

Il pastore Martin Luther King (1929-1968) aveva fondato la Southern Christian Leadership Conference per promuovere la non violenza all’interno dei movimenti di rivendicazione. Aveva 34 anni quando pronunciò il celebre discorso “I have a dream” (Washington D.C., 28 agosto 1963).

“Io ho un sogno – dice – un sogno profondamente ancorato dentro il sogno americano. Sogno che un giorno il nostro paese si leverà e vivrà pienamente la vera realtà del suo credo: «Noi crediamo in questa verità, evidente per se stessa, che tutti gli uomini sono creati uguali»”. Subito dopo allarga il sogno alla terra vasta degli Stati Uniti, chiama all’appello la geografia fisica degli stati e lascia cadere il suo sogno, come acqua di marzo che feconda, sulla terra americana. Chiama all’appello per primi gli stati del Sud, troppo spesso macchiati da linciaggi e violenze, albergo di associazioni omicide come il Ku Klux Klan. Il pastore King batte il suo mantra di pace e libertà: “I have a dream”, un sogno per le rosse colline della Georgia, che figli di schiavi e figli di proprietari possano sedere insieme alla tavola della fraternità; un sogno per il Mississippi, che brucia di fuochi d’ingiustizia e oppressione, per l’Alabama, dove sogna una catena di mani di bimbi e bimbe bianchi e neri …  Fu assassinato a Memphis il 4 aprile 1968. Non è morto il suo sogno, tuttavia. I sogni sono gli anticorpi delle prassi inique che l’umanità adotta per cercare di lenire il vuoto delle sue ansie e della sua smania di potere. E se un progetto – legale o criminale che sia – di business deve confrontarsi col bilancio finale, i sogni e le utopie restano comunque come seme gettato nel cuore degli uomini che alzano la faccia dalla terra – vezzo familiare al maiale – per contemplare il cielo e le sue stelle e scorgere all’orizzonte novità.

L’evangelo di Giovanni ci narra del colloquio di Gesù con una donna samaritana al pozzo di Giacobbe. Al termine, mentre i discepoli gli offrono da mangiare e lo invitano al riposo, Gesù afferma: “Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35).

Quattro mesi prima della mietitura il grano è verde (sono cresciuto in Puglia, tra grano duro e olivo). Sulla linea dell’orizzonte il grano è verde, ma se si levano gli occhi, sulla linea del sogno il grano è giallo e asciutto, pronto per il suo sacrificio nella falciatura. I sognatori sono quelli che anticipano il tempo e anticipare il tempo innesca un movimento accelerato di mietitura. Nel cuore dei sognatori il cielo contemplato si piega sulla terra e quello che sembrava visione diviene storia in atto, falciatura, molitura e pane nuovo per i popoli.

 

Nel 1222 Tommaso da Spalato, studente a Bologna e futuro arcivescovo della città croata corre ad ascoltare un fraticello che in Piazza Maggiore sta incantando la città. Testimonierà: “Ho visto San Francesco che predicava sulla piazza antistante il palazzo comunale, ove era confluita, si può dire, quasi tutta la città”. I dotti della città, continua Tommaso, erano ammirati da quel discorso di un uomo illetterato, “eppure egli non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un concionatore”. Francesco non parla il linguaggio – a volta astruso e astratto – dei chierici, parla come un oratore laico, diremmo un sindacalista, un politico. “In realtà - conclude il croato – tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace”. Mille nelle Fonti francescane sono le occasioni in cui Francesco seminò la pace, superando contese.

Francesco usava andare a pregare in posti romiti dell’Appennino umbro – toscano, s’infilava nelle fenditure della roccia come la colomba del Cantico dei Cantici, pensando di essere immerso nella ferita del costato di Cristo. All’Eremo delle Carceri, a San Damiano, al sacro Speco di Narni, nel “crudo sasso intra Tevere e Arno” – la Verna coltivava sogni ed era carezzato da visioni che partivano da quel cuore trafitto dalla lancia romana sulla croce. Ma poi scendeva a valle, a Bologna e in mille altre città; fino al sultano d’Egitto scese, e fu suo ospite un anno, speso in parole di pace. Scendeva a condividere il suo sogno cristiano, scendeva e fecondava di pace la storia delle città d’Italia e poi del mondo.

 

Il sogno di Martin Luther King rimane vivo, vivo è il sogno di Francesco. Chissà se c’è ancora spazio per i sogni tra gli uomini e le donne che occupano gli austeri e anemici scranni delle Nazioni Unite. La pace tra i popoli non è un business vestito di esangue diplomazia, ma piuttosto un sogno, che dobbiamo realizzare. Rubo un dettaglio del sogno del pastore King: io sogno che i bambini israeliani e palestinesi possano intrecciare girotondi sulla linea di confine tra due stati sovrani, liberi e amici. I have a dream. Non c’è altro linguaggio per la pace.

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