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Così Netflix con Emily in Paris cambia la fruizione della moda

Lily Collins ripete Sarah Jessica Parker di Sex&the City, il suo cappellino spopola e spinge il veloce cambiamento della dinamica degli acquisti moda

Così Netflix con Emily in Paris cambia la fruizione della moda

Il segnale che Patricia Field si trovava sicuramente dietro le quinte del nuovo serial hit di Netflix, “Emily in Paris”, è stato il cappellino piatto portato sulle ventitrè da Lily Collins, che nella fiction interpreta il ruolo di un’esperta di marketing dei beni di lusso poco più che ventenne, in trasferta a Parigi per conto della casa madre di Chicago. Lo stesso genere di “focaccetta” piatta, deliziosa e del tutto inutile perfino sulle passerelle, che vent’anni fa indossava Sarah Jessica Parker in Sex&the City.

 

Alla guida dei costumi e dello styling del nuovo serial che sta rivoluzionando un’altra volta il mondo della moda non poteva esserci che lei, la signora con i capelli rossi arruffati che, per lunghi anni, vedemmo seduta in prima fila alle sfilate, riverita da pr e direttori commerciali che speravano di replicare grazie a lei la vertiginosa ascesa mondiale di Manolo Blahnik, fino a quel momento patrimonio di conoscenza (e di acquisto) delle happy few.


Così come la Carrie Bradshaw di fine Anni Novanta, giornalista e scrittrice free lance, mai avrebbe potuto permettersi il guardaroba che andava accumulandosi nel suo minuscolo appartamento nel Village e che però permetteva fantastiche battute agli sceneggiatori (“morirò letteralmente come la vecchina che viveva in una scarpa”), la Emily Cooper sfoggia un guardaroba che mai entrerebbe nell’appartamentino di bohème dove si accampa (“mi sento come Nicole Kidman in Moulin Rouge”, sceneggiatori elettrizzati), tanto meno potrebbe essere contenuto nelle tre sacche che porta con sé da Chicago. Per non dire acquistato con il suo stipendio da pubblicitaria alle prime armi.

 

Ma il bello di questa nuova favola seriale, che ci sta riempiendo le serate in queste nuove settimane di para-lockdown perché c’è qualcuno che ha già visto più volte le prime due serie, è proprio questo: la sua assoluta incongruenza con la realtà, a parte una serie di stereotipi sui francesi (antipatici, pieni di sé, arroganti, anche un po’ emmerdeur) che a Parigi ha fatto gridare allo scandalo.


Dopotutto, che cosa sono le favole se non un mezzo, un segno, un simulacro simbolico della realtà che potrebbe essere, bella e buona o tenebrosa e cattiva, a seconda della morale e dell’etica di ciascuno. Lily-Emily è buona, piena di entusiasmo, molto carina: la vita le sorride anche quando i cattivi attorno a lei tramano perché cada. Perché mai le fate non dovrebbero riempirle l’armadio di capi che neanche riuscirebbero a entrarci? Ecco, appunto. Il punto è questo, il sogno. E, di conseguenza, lo straordinario successo della serie.

 

Dopo il termine della sesta serie di Sex&the City, nessun altro era riuscito a suscitare lo stesso interesse da parte della moda: né “Gossip girl”, che pure viene citato anche da Emily più volte come suo “primo approccio allo stile”, né il sofisticato Mad men che guardava agli Anni Cinquanta, né “Girls”. Come il suo antesignano, Emily in Paris porta in scena tre diversi tipi di donna e di moda – Emily con il suo stile eclettico, l’amica Camille che invece rappresenta l’epitome dello chic dell’alta borghesia europea (jeans morbidi, boots, camicie larghe, una cert’aria di finta trascuratezza), e Mindy, cinese ricchissima ma scappata di casa per non assoggettarsi ai diktat della propria famiglia, pazza di pelli pregiate, curata  – suscitando dunque infiniti processi di identificazione da parte delle spettatrici (e, perché no, degli spettatori).


Lo scopo di ogni romanzo, dagli albori della “Principessa di Clèves” di madame de la Fayette, uscito nel 1678, è stato questo: “Emily in Paris” non sfugge alla regola, anzi la cerca ossessivamente. Mentre ovunque in Europa si intensifica la stretta sugli orari di apertura dei centri commerciali, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro, l’attenzione dei potenziali acquirenti di moda e accessori, sempre più (e nuovamente) confinati in casa, si sposta sull’online. Storie, film, selezioni, acquisti: tutto viene filtrato attraverso il computer (ma più spesso lo smartphone) e gestito autonomamente.

 

Senza l’intermediazione né del negozio/boutique né dei media. Qualche giorno fa, la piattaforma Lyst segnalava che gli spettatori di “Emily in Paris” hanno cercato compulsivamente i look e i brand sfoggiati da Lily Collins, da un certo top di Chanel che sfoggia in una scena romanticamente importante al “bucket hat”, il cappellino da pescatore, a secchiello appunto, che è stato un accessorio centrale nelle sfilate della scorsa primavera, a partire da Fendi e, appunto, Chanel, ed è comparso ormai in tutti i grandi magazzini e le piattaforme di e-commerce.

Dice il presidente di Camera Buyer, Giacomo Santucci, che l’asse della gestione degli acquisti, del loro indirizzamento, si sta spostando sempre più rapidamente su chi acquista. Sono loro a gestire tendenze e informazioni e a indirizzare gli acquisti degli stessi buyer. Questo, aggiunge, cambierà inevitabilmente anche la logistica, cioè la distribuzione, il magazzino e l’approvvigionamento, che dovranno diventare più flessibili, pronti a seguire gli innamoramenti improvvisi del mercato, quelli che nella Francia di Lily-Emily si definiscono i “coup de coeur”. Sarà un processo non lungo, ma molto difficile per intere categorie del commercio. 

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