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Crolla la moda maschile. Pitti riparte digital e continua a combattere

Tutti i segreti della storica manifestazione fiorentina Pitti Uomo, che parte dal suo maggior espositore, ossia Bruno Cucinelli. Ma da remoto annoia...

Crolla la moda maschile. Pitti riparte digital e continua a combattere

Alla fine si è rassegnato al web anche l’uomo più ottimista dell’intero settore moda, l’amministratore delegato di Pitti Immagine, Raffaello Napoleone. Il 12 gennaio, con una presentazione in diretta da Solomeo, centro degli affetti e del business di Brunello Cucinelli che è uno dei maggiori espositori di Pitti Uomo, è stata inaugurata l’edizione digitale della manifestazione, la numero 99: dicono le stime del Centro di Confindustria Moda sulla base delle indicazioni provenienti dalle indagini campionarie interne e sulla base dell’andamento congiunturale del quadro macroeconomico di riferimento, che la moda maschile dovrebbe archiviare il 2020 con perdite senza precedenti, su cui gravano sia le flessioni dell’export sia il forte deterioramento dei consumi interni: -18,6 per cento di fatturato, portandosi a poco meno di 8,3 miliardi di euro e bruciando, così, quasi 2 miliardi in dodici mesi (nel 2019 il segmento uomo aveva concorso al 18,1 per cento della filiera tessile-moda italiana e al 28,0 per cento del solo abbigliamento).

 

Bisogna reagire. Mise e Ice continuano a finanziare la manifestazione, che con i soli introiti delle sottoscrizioni digitali, ovviamente, non riuscirebbe a sostenersi. Resta aperta ancora per qualche giorno, cioè fino al prossimo Dpcm, l’opzione della mostra fieristica fisica, spostata al 21 febbraio rispetto al famoso “secondo martedì di gennaio” che, come il primo lunedì di maggio per il Met Ball, nella moda è una data di riferimento da molti, molti anni. Con Pitti Uomo, nel freddo umido del centro di Firenze, fra le candele della cena di apertura, a Palazzo Pitti o a Palazzo Corsini, ci si ritrovava dopo le feste, si facevano previsioni per l’anno appena iniziato, ci si rimetteva in marcia. Si tentava anche, naturalmente, di dare corpo a tendenze che solo l’abilità dell’ufficio comunicazione e marketing di Pitti poteva tracciare e definire come tali perché, siamo onesti, nell’abbigliamento maschile che non sia di pura moda, ma in realtà anche in quello, le novità sono grandemente marginali.

 

Stagione dopo stagione migliorano i tessuti, le cosiddette “performance” delle giacche tecniche, si fanno più leggeri e confortevoli le scarpe da sport e i cappotti, si moltiplicano o vengono annullati i colori, ma alla fine si è sempre lì, alla giacca più o meno formale, al cappello che una volta è da pescatore e un’altra da basket, alla cintura in pelle o in corda, alla borsa a tracolla che un anno sì e uno no. L’abilità del team di Pitti è sempre stata la costruzione, l’invenzione, la gestione di “eventi speciali”, le cabine di regia che, nell’organizzazione, nulla hanno da invidiare a quelle di Palazzo Chigi, anzi; e, ancora, gli allestimenti sempre nuovi in un centro città che è sì meraviglioso, ma limitato, dunque inevitabilmente ripetitivo.


Anni fa, cercando nell’archivio di Rai Teche materiale per un progetto speciale, trovai le immagini di una festa al Forte Belvedere del 1958 pressoché identica a quella a cui avevo partecipato pochi mesi prima, eccezion fatta per i costumi cinquecenteschi indossati dagli ospiti di allora e il fatto che fossero stati trasportati fino al pianoro in portantina (beati loro). Potremmo ricordare tutte le volte in cui abbiamo visto un brand sfilare nel Salone dei Cinquecento, da Ermanno Scervino a Brooks Brothers, nel centenario prima del disastro, e tutte le volte ci è parso diverso. E ancora le Serre Torrigiani, Villa Bardini, il Museo del Bargello e lo Stibbert (questi ultimi un po’ meno, sono tristi e sciattamente gestiti almeno quanto il Museo Bagatti Valsecchi a Milano), e poi il chiostro grande di santa Maria Novella dove, chissà perché, c’è sempre qualcuno che si ostina a sfilare all’aperto, la sera, a gennaio, fra gli invitati che si passano gli scaldamani, lamentandosi molto per il freddo umido e malsano di cui si preoccupava già Eleonora di Toledo, facendolo però in totale allegria, perché lamentarsi della fatica di guardare moda, nella moda è sempre stato un obbligo mondano.


Purtroppo, però, guardare moda online è una noia reale ed effettiva. Osservare per ore sullo schermo una sfilata dopo l’altra, che è un modello di rappresentazione fisica antica (si rifà all’apparato religioso della processione) è quasi impossibile: dunque non è un caso che tutte le maison provviste di mezzi e di uffici creativi degni della qualifica si siano attrezzate per proporre formati mediatici nuovi, il più possibile coinvolgenti, attraenti, qualificanti, attraverso la scelta di registi di portata mondiale (Gus Van Sant per Gucci), musica ad hoc (da Dua Lipa a Lady Gaga), gli interpreti (ditene uno, c’è).

 

Lo sforzo è encomiabile, talvolta perfino commovente. Però, tranne i rari casi delle piccole presentazioni ad personam, tre giornalisti per volta, un buyer un’ora dopo, sempre lì si è. Alla nostra scrivania, al nostro pc. E’ arrivato il 2021, ed eccoci di nuovo davanti a uno schermo, a pochi mesi da quando ci eravamo detti che a gennaio tutto sarebbe stato diverso, e che se pure non ci saremmo abbracciati, e non avremmo abbassato la mascherina, almeno avremmo potuto vedere, esaminare, toccare, scambiarci idee, fare nuove conoscenze. Perché è questo l’aspetto fondamentale delle manifestazioni fieristiche, come Pitti meglio di ogni altro ha intuito dai tempi della presidenza di Marco Rivetti: il networking. E non poterlo fare ne diminuisce molto l’appeal.

 

Dice la vulgata degli espositori storici che l’organizzazione sia ancora convinta di aprire le porte della Fortezza da Basso a fine febbraio e che tuttora telefoni per fissare spazi, stabilire quote, capire la portata degli allestimenti previsti e il loro gradiente mediatico, al limite indirizzarlo. Ma anche se si potesse trasferire in presenza quanto si sta vedendo online, e dubitiamo molto che accadrà, sarebbe comunque impossibile veder circolare per Firenze quella quota preponderante di buyer e osservatori stranieri che ne ha decretato il successo fin dalla prima edizione, da quel 1951 in cui Giovan Battista Giorgini invitò a casa i responsabili acquisti dei grandi magazzini americani a scoprire l’alta moda italiana. La doppia declinazione della fiera – digitale e fisica – si renderà necessaria comunque. Per ora, come facciamo ormai da quasi un anno, compulseremo presentazioni, cercheremo di trovare il filo delle tendenze, proveremo a non annoiarci.


La gestione del direttore generale di Pitti, Agostino Poletto, ha prodotto quattro filoni, in cui sono state raggruppate le consuete categorie: classico-contemporaneo (Fantastic Classic), lo sportswear e l’outdoor (Dynamic Attitude) e la ricerca (SuperStyling). “Il baricentro di questa edizione è giocoforza italiano”, dice; “siamo felici dell’impegno profuso da un gruppo molto qualificato di campioni nazionali per animare il salone con live streaming, eventi speciali e una costante comunicazione. Ma voglio ringraziare quegli espositori esteri che, nonostante le difficoltà, hanno deciso di partecipare: alla scena estera dedicheremo i Pitti Olympics, un progetto online che valorizza una serie di interessanti brand selezionati per paese”.

 

Per l’occasione, è stata rafforzata la piattaforma Pitti Connect che – bisogna ammetterlo – fino alla scorsa estate era molto mal funzionante e ben poco attrattiva: “Le nuove funzionalità”, aggiunge,”sono state pensate e realizzate per le necessità delle aziende nel rapporto con i compratori. Il principio è dare ai nostri espositori l’opportunità di rilasciare più contenuti durante il periodo in cui saranno online”. E questo accadrà fino a marzo. Inglobando, dunque, le previste tempistiche di un Pitti Uomo fisico che si allontana sempre di più, sotto la forza d’urto del virus e, al momento, della battaglia in corso sul Recovery Plan.

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