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Luoghi non comuni

Milano era proprio “da bere”. Senza eventi e aperitivi si è spenta

La borghesia e i professionisti da smart working sono sciamati nelle seconde case. Tutte le differenze con Roma e le molte incognite sulla ripresa

Milano era proprio “da bere”. Senza eventi e aperitivi si è spenta

Lo scorso Natale Paolo Pillitteri, il sindaco della Milano da Bere, gagliardo ottantenne, ha inviato a referenti e amici una mascherina lavabile stampata con l'epico slogan che tanti grattacapi aveva dato al suo inventore, un pubblicitario coltissimo e vagamente malinconico, onusto di cariche accademiche a cui teneva molto, che si chiamava Marco Mignani e che scomparve prematuramente nel 2008, dopo aver coniato un altro paio di pay off entrati nel lessico comune e la stessa definizione di Forza Italia (era socio di un'agenzia internazionale con una lunga tradizione nel making of di presidenti e premier, fondata dal guru Jacques Séguéla). Lo slogan, come forse qualcuno ricorderà, era stato ideato per l'amaro Ramazzotti: lo spot si trova ancora sul web, con la sua immagine un po'sgranata e appannata di un tramonto dietro il profilo del Duomo. L'ora che volge al disio. Dell'aperitivo.

 

Fino all'epoca del Covid, noi milanesi di nascita credevamo che il rito del cocktail prima del pranzo serale – qualcosa che, si intende, conoscevamo solo noi e che solo noi sapevamo apparecchiare e tramandare dai tempi del Camparino e del Gin Rosa, non certo i romani con quelle du'patatine – fosse una frizzante aggiunta alle nostre già frizzantissime esistenze. La fettina di arancia dello spritz, ma non lo spritz stesso, per dirla in sintesi e senza uscire dall'area semantica. A quasi un anno dallo scoppio della pandemia, molti di noi iniziano a pensare che spritz e fettina fossero la stessa cosa. Mignani aveva visto giusto. "Questa Milano da vivere/da sognare/da godere" viveva attorno al bere dell'evento, della presentazione, della vernice, dell'apertura, della sfilata, della fiera, dello spettacolo e della cena dopo lo spettacolo. La città di un terziario talmente avanzato che dietro non c'era granché d'altro: tutto seguiva, tutto serviva quello. I servizi del servizio, mentre la produzione restava fuori città. Anche nell'hinterland, ma insomma fuori, ad eccezione delle cose belle ed eleganti: cultura, editoria, showroom di moda, pubbliche relazioni. Girare per la Milano eternamente rossa della colorazione pandemica di questi mesi è un colpo al cuore, perché è ovvio che quello stato di perenne sovraeccitazione in cui vivevamo, convinti di essere il sale della Terra, alimentasse solo se stesso.

 

Mentre Roma, dove trascorro metà del mio tempo, è una città che basta a se stessa, dove nulla di gravissimo sembra essere accaduto perché tutto è già successo, infinite volte, e tutto è stato assorbito da quelle pietre che si scaldano al sole e quelle colonne romane che nei secoli hanno trovato rifugio nei muri delle nuove case, ornandole di grazia e di mistero, Milano si è ripiegata su se stessa. Per la seconda volta dallo scoppio di Tangentopoli, trent'anni fa. Allora, la borghesia tenne botta, salda, compatta, pronta a rialzarsi come ha fatto, pur a fatica e in modo compiuto solo nel 2015, con l'Expo. Adesso, se ne è andato quel che resta di quella borghesia che nulla ha a che spartire con le Terrazze Sentimento (sia detto per inciso, è incredibile che qualcuno considerasse il giro di Alberto Genovese una rappresentanza della cosiddetta "bella gente": la "bella gente", che raramente finisce sui giornali se non per le sue case e i suoi giardini e tendenzialmente in forma anonima, alla banda di Genovese non avrebbe mai nemmeno aperto l'uscio; anzi, come s’è visto chiamava i carabinieri per non essere troppo infastidita dalle sue feste e dalla sua presenza).

 

La borghesia, nuova o antica, giovane e meno, ha lasciato da tempo la città come è sempre successo ovunque, in tutte le pandemie, in tutte le pestilenze, come si legge nel Boccaccio e nel Manzoni. Via in campagna, in montagna, al lago, ovunque possieda una casa abbastanza accogliente e un terrazzo, un giardino, un parco, una finestra da aprire su un bel panorama per respirare un po'd'aria meno inquinata, che nelle pandemie contemporanee è già un buon punto di partenza. Sarebbe scappata lo stesso, trasferendo altrove il "domicilio" che gli ultimi Dpcm hanno pudicamente contemplato fra le ragioni ammissibili per la fuga, ma potendo godere di reti wifi e fibre ottiche (non ovunque, ma spesso, soprattutto in Liguria e Piemonte), questa volta l'ha fatto senza doverne rendere conto a nessuno e senza quasi subire contraccolpi nel lavoro. Dopo il primo mese di smart working, i professionisti hanno capito che, con qualche accorgimento, della residenza a Milano non avevano granché bisogno; da mesi, colleghi giornalisti, ma anche avvocati, fanno la spola fra le seconde case dove hanno lasciato la famiglia e la città. Un amico architetto di gran nome, inventore di soluzioni geniali per il riciclo dei materiali edili, si dice seriamente preoccupato per i tempi di recupero di Milano post-pandemia.

 

Nessuno ha ancora calcolato quanti milanesi si siano dileguati in via semi-definitiva, o vivano il centro città solo per usufruire dei servizi essenziali e per tenervi gli incontri indispensabili: anche senza calcolare il Quadrilatero, che viveva già solo di turisti e i cui residenti oggi si aggirano immersi nel silenzio per raggiungere il primo supermercato aperto, in corso Monforte, si è comunque svuotato. Nelle piccole città, o nella capitale che assomiglia a tante piccole città raggruppate e si fa vita di quartiere, al momento si vive decisamente meglio. Tanti stanno contemplando l'opportunità di vendere il grande appartamento che possiedono, appena le condizioni saranno migliori, per sostituirlo con un pied à terre utile per frequentare Milano per il meglio che sa offrire: aperitivi e addendum. Milano è, o forse era, una città che viveva della propria mobilità. La stanzialità le calza malissimo. Dunque, urge correre ai ripari, e in fretta. L'assessore regionale al welfare Letizia Moratti ha fatto benissimo a fare ricorso contro la collocazione della Lombardia in zona rossa sulla base di valutazioni ampiamente discutibili (la registrazione dei già guariti fra i contagiati, per esempio). Altri sei mesi così, e di Milano non resterà neanche la fettina d'arancia.

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