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La parola scritta torna da protagonista con i grandi brand della moda

I brand di moda Gucci, Valentino, Bottega Veneta e Tod’s guidano la riscoperta della scrittura raffinata ed elitaria rispetto all’immagine usa e getta

La parola scritta torna da protagonista con i grandi brand della moda

Nel momento in cui scriviamo queste righe, si è da poco conclusa la presentazione della collezione di Alessandro Michele per il centenario di Gucci, #Aria. Un'atmosfera nuova in tutti i sensi, visto che i novantaquattro look presentati rileggono efficacemente il patrimonio culturale di Gucci (e in modo anche molto selettivo), segnando al contempo una cesura rispetto al lavoro fatto dallo stilista fino a oggi. Sulla passerella sono rimasti “i miei freak”, come li definisce nella conferenza stampa ristretta organizzata pochi minuti dopo la diffusione del video, ma tutti appaiono pacificati, rasserenati, in cerca di una nuova felicità e, soprattutto, di leggerezza. Chiunque di noi ha voglia di cambiare, e Gucci non fa eccezione, al punto di guidare, insieme con un manipolo di altri brand mondiali, anche una piccola rivoluzione nella comunicazione, in cui la parola scritta sta recuperando posizioni rispetto alla pura immagine e la rilevanza culturale va sostituendo l'immagine usa e getta. A partire dall'invito alla visione della sfilata (un quesito enigmistico proposto in una rivista di quiz realizzata da Keesing Prs Italia) fino alle strisce disegnate da giovani artisti sui quotidiani, Gucci, con Valentino, Bottega Veneta e pochi altri, stanno cambiando il linguaggio con cui la moda comunica.

 

Quello che nell'anno del Covid sembrava un processo di virtualizzazione ineluttabile dell'esistenza, parzialmente guidato e promosso dalla moda, cioè dal settore che più di ogni altro è votato all'innovazione, al cambiamento continuo e non di rado spicciolo, ha virato di 180 gradi durante il secondo lockdown, per tornare gradualmente alla valorizzazione della parola scritta. Bottega Veneta, parte del gruppo Kering come la stessa Gucci, a fine 2020 ha addirittura chiuso i propri account social per scegliere la formula antica del magazine trimestrale autoprodotto come mezzo di interazione con i propri referenti, trasformandolo subito nel genere di simbolo che fino a dieci anni fa si sarebbe definito – correttamente- "feticcio”, e oggi, con locuzione ubiqua e standard, “oggetto di culto”.

 

Questo non significa che il processo di virtualizzazione della moda e della sua rappresentazione si sia esaurito: il gaming, cioè il gioco virtuale, è diventato, anzi, una forma alternativa di proposizione e fruizione del messaggio della moda vestimentaria presso il pubblico più giovane che i brand continuano a perseguire. Gucci, per esempio, ha lanciato sneaker virtuali, acquistabili e applicabili alla propria immagine al costo di dieci euro, mentre Versace ha aderito ComplexLand, destinazione immersiva che unisce arte, moda, performance musicali e conversazioni culturalieil direttore creativo di Louis Vuitton, Nicholas Ghesquière, ha firmato l'abbigliamento dell’”imperatrice degli elementi” Qiyana e della “redentrice” Senna nel gioco fantasy “League of Legends”.

 

Il segnale tendenziale più forte del semestre novembre 2020 – maggio 2021 è stata l'uscita, in tempi ravvicinati, di una serie di volumi non biografici e di campagne pubblicitarie di moda impostate, quasi dominate dalla parola scritta, dal suo significato così come dall'arabesco della sua trascrizione calligrafica. Segno grafico e fonema, la parola ha portato la moda anche a lambire la radio, territorio a lei finora pressoché sconosciuto perché, almeno in apparenza, antitetico rispetto a un settore, e a un business, dominati dall'immagine: la radio, il podcast, l'apertura di una “stanza” sulla app ClubHouse da cui lanciare discussioni a invito attorno a temi di moda ed eredità culturale di marchio, è stata invece una scelta compiuta negli ultimi mesi da Dior, Chanel, Margiela, ma anche da alcune associazioni come Assocalzaturifici, l'ente organizzatore della rassegna fieristica semestrale Micam.

 

Sarebbe facile immaginare in questa nuova strategia comune un'evoluzione dello storytelling, cioè l'arte del raccontare storie impiegata come tecnica di comunicazione persuasiva. In parte lo è, sebbene il podcast e la “stanza” richiedano doti di intrattenimento che pochi possiedono; in parte, questa nuova importanza assegnata alla parola in luogo dell'immagine risponde all'esigenza – connaturata alla Moda stessa – di sperimentare nuovi territori, di distinguersi, e al tempo stesso di staccarsi sempre di più dalla percezione comune di “industria dell’effimero”.

 

Tutti i brand, nel settore della moda di alta gamma, hanno pubblicato infatti libri e testi di moda, o stanno per farlo. Escluso l'ingaggio di curatori e autori, questi marchi investono da un minimo di 80mila a oltre centocinquantamila euro per una media di 2mila copie stampate e una distribuzione nazionale e internazionale limitata a qualche centinaio di copie, destinate alle librerie specializzate in arte e cultura dell'immagine e alle reti di vendita online. La grande maggioranza delle copie diventa quindi strumento di comunicazione e posizionamento, destinato ai referenti del marchio a vario titolo, cioè e ancora clienti, stampa, azionisti, lungo quella strategia che in gergo si definisce “seeding”, semina: corollario ideale all'accezione stessa di libro.

Dopotutto, qual è lo scopo del libro se non quello di seminare e, con la sua presenza fisica continuativa, ipoteticamente perenne, di continuare a farlo, facendo crescere idee, suggestioni, spunti? E perché mai la moda non dovrebbe avvalersi dello strumento della scrittura come mezzo espressivo, quando alla parola deve tutto, ben prima che alla propria essenza di oggetto materiale?

 

Come osservava Lidia Lonzi nella prefazione alla prima traduzione italiana del celebre Sistema della Moda di Roland Barthes (Einaudi, 1970), «dal momento in cui si prende a osservare la Moda, la scrittura appare costitutiva: il sistema dell'indumento reale non è niente di più dell'orizzonte naturale che la moda si dà per costituire le sue significazioni: al di fuori della parola non vi è moda totale, non vi è moda essenziale». Non è l'oggetto, è il nome che fa desiderare, e non è affatto il sogno, ma il senso di questo sogno che fa vendere. Trama di parole, trama di fili, uniti dall'origine e dal gesto. Ed ecco quindi l'abito narrato entrare in una nuova dimensione, quella temporale: l'abito della memoria, l'abito madeleine proustiana, come nell’”Album dei vestiti” scritto da paola Masino nei primo Anni Sessanta, elemento rivelatore di ricordi perduti, ma anche l'abito promessa futuribile: «We are storming towards your future and you cannot stop us»: «Stiamo dando l'assalto al tuo futuro e non ci puoi fermare», scrive Bernardine Evaristo accanto all'immagine di una modella che sta per affrontare la platea della sfilata Valentino primavera-estate 2021 nel libro “Valentino Collezione Milano”, pubblicato nel marzo del 2021.

 

Ed ecco allora segno, senso, moltiplicati davanti agli occhi del lettore, anche dello sfogliatore distratto di pagine, grazie all'intercettazione perfetta dello zeitgeist: che cosa c’è di più seducente, di più attraente, di un abito a cui bellezza e movimento e parole imprimono energia? E che cosa rende più desiderabile un abito a cui si associano immagini di potere e indipendenza nel momento in cui indipendenza e potere appaiono inestricabilmente legati? Fra novembre 2020 e marzo 2021, Valentino ha pubblicato due volumi: il primo, Uncensored Vlogo Signature Project, curato dal direttore creativo Pierpaolo Piccioli, raccoglie la reinterpretazione del logo – segno identitario per qualsiasi azienda ma di fondamentale pregnanza per la moda che spesso lo trasforma in tessuto stampato, accessorio, fibbia e fermaglio, aumentandone di conseguenza l'appeal e la rilevanza in una perfetta strategia di rimandi fra riconoscibilità e attrazione – da parte di sedici magazine di moda indipendenti del mondo.

 

Valentino Collezione Milano (Rizzoli) ha invece valenza testimoniale, sia per l'obiettivo perseguito – ripercorrere attraverso gli scatti di Liz Johnson Artur i momenti salienti della sfilata del marchio del 27 settembre 2020, la prima mai tenuta nella città italiana della moda - sia per la formula, che coniuga alle immagini per l'appunto il testo di una scrittrice di grande rilevanza nel panorama europeo dell'attivismo Lgbtq+, Bernardine Evaristo, Booker Prize 2019 con il romanzo Ragazza, Donna, Altro (BigSur, 2020).

 

Immagini e testi dialogano fra loro con una naturalezza e una congruenza raramente sperimentata da questo genere di libri, sia per l'evidente armonia personale fra le due autrici sia per l'impatto metaforico, terzo, che testo e immagini combinati riescono a provocare nel lettore. Nella primavera del 2021, Valentino ha lanciato inoltre – esclusivamente su alcune testate periodiche di rilevaza culturale - una campagna pubblicitaria di soli testi, scritti da autori della letteratura mondiale di provata sensibilità sulle questioni di genere come Donna Tartt, la turca Elif Shafak, l'attivista e sceneggiatrice americana Janet Mock, Lisa Taddeo, best seller con Three women, e ancora Matthew Lopez, Ocean Vuong e Yrsa Daley-Ward, nota come "la poetessa di Instagram".

 

La posizione ufficiale diramata da Valentino ai media è che «l'intento di questa iniziativa non è di imporre il proprio linguaggio ai media, ma di utilizzare i media e il loro linguaggio come mezzo per raccontare e coinvolgere il suo pubblico attraverso una condivisione di valori”. Ad esclusione di Donna Tartt, che ha ceduto i diritti di un passaggio del suo ultimo romanzo, Il Cardellino (Rizzoli, 2014), gli altri autori hanno tratto spunto da un capo o un accessorio della “Collezione Milano” per costruirvi attorno un brevissimo racconto, un frammento di storia, un’intuizione, che la maison ha impaginato su fondo bianco, in carattere Bodoni.

 

Se la letteratura ha da sempre praticato il settore della Moda, in particolare fra l'Ottocento e il primo Novecento in cui la classe borghese occidentale cercava avidamente modelli e stili di comportamento fra le pagine dei romanzi e spesso gli stessi scrittori infilavano abilmente fra le pagine riferimenti a commercianti, profumieri e mobilieri di cui bazzicavano le botteghe (primo fra tutti Honoré de Balzac, sempre a corto di denaro per pagarsi i lussi di cui non era mai sazio), non di meno questa letteratura di moda su commissione sfugge in parte alla classificazione di Barthes: benché trovi spazio fra le pagine di quotidiani e periodici, non è oggetto culturale autonomo, come sono le riviste, mentre partecipa – ma solo in parte, perché guidata e piegata da esigenze diverse – alla propria funzione narrativa. 

 

Ancora diverso è il progetto di inchiesta e immagine documentaristica sulla Silicon Valley curato da Michele Lupi e illustrato dalle immagini di Ramak Fazel per la linea più innovativa del gruppo Tod’s, no_code: il libro Silicon Valley. No_code life, edito nel marzo del 2021 da Rizzoli New York, che ha lo scopo di posizionare il brand nell’immaginario dell’intelligentsjia mondiale senza mai renderlo visibile fra le decine di immagini che, invece, rappresentano una testimonianza on the road, vissuta da autore e fotografo, della banalità della Silicon Valley oltre il mito di Steve Jobs e dei programmatori che vivono in t shirt e jeans fra bar da quattro soldi e casette prefabbricate assurdamente care.

Tutti questi progetti – come si definiscono oggi e come peraltro sono – rappresentano un passo al tempo stesso nuovo e antico nel rapporto fra azienda e cliente, fra prodotto e suo fruitore. Ma rispondono a una logica antichissima, medievale: quella della creazione di comunità, di gruppi con interessi similari, contro l’individualismo esasperato dell’ultimo mezzo secolo. Una filosofia di cui sarà interessante seguire lo sviluppo e le applicazioni nei prossimi anni.

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