Campioni del calcio

“Forza Gentile” il libro di Shevchenko, campione che venne dal freddo

La vita, le imprese e i tantissimi goal di uno dei attaccanti più famosa della storia del calcio, si racconta in un’autobiografia, “Forza Gentile”

“Forza Gentile” il libro di Shevchenko, campione che venne dal freddo

Taras Shevchenko è stato il più grande poeta ucraino, ma c'è un altro poeta che porta lo stesso cognome, un uomo dalla faccia pulita da bravo ragazzo, un uomo gentile che ha saputo fare della sofferenza il suo punto di forza, diventando un Dio del pallone. Uno che ha vinto tutto e non si è mai montato la testa, un'icona che non si è mai sentita tale: Andriy Shevchenko.

 

Oggi la sua incredibile vita, i momenti epici, ma anche le sue debolezze, le paure, il trauma di Chernobyl, l'amore e l'amicizia viene raccontata in un commovente libro autobiografico Forza Gentile, scritto con Alessandro Alciato, appena uscito per Baldini+Castoldi.

«Un giocatore straordinario, uno dei più grandi», così lo ricorda Josè Mourinho, che lo ebbe al Chelsea nel suo periodo post Milan. Chi invece lo ha conosciuto bene, e ha voluto lasciare un bellissimo ricordo nel libro è Boban Zvonimir: «Imprendibile, aveva la quinta e la sesta. E la palla sempre vicino al piede. Quando arrivò al Milan fece il killer, fece lo Sheva».

 

Ma la sua storia gloriosa di attaccante, dove vinse uno scudetto, la Coppa Italia, una Supercoppa europea,la Champions League, la Coppa della Lega inglese, il Pallone d'Oro nel 2004, comincia da molto lontano. Come racconta nei primi capitoli del libro aveva solo nove anni quando il 26 aprile 1986 succede la tragedia di Chernobyl. Lui vive con la famiglia a soli 150 chilometri dal luogo dell'esplosione del Reattore 4. Così è costretto con gli altri bambini a lasciare la sua casa: «Mia madre preparò di corsa le valige per me e mia sorella», racconta. Caricati su un pullman e portati sulle rive del Mar d'Azov, sul Mar Nero a 1500 chilometri da casa. Dove vive questa tragedia come fosse una nuova avventura. La sorella è la persona che gli sta più vicina, poi c'è il calcio. «Il calcio mi ha salvato la vita, mi ha portato fuori dalla strada», scrive, pensando a tutti gli amici perduti. «Il calcio mi ha scelto, mi ha preso per mano, mi ha accarezzato l'anima». Certo non sono sempre state carezze: gli allenamenti con il colonello Lobanovskij erano durissimi. A volte andava avanti anche per tre ore con corse disumane lungo la cosiddetta “salita della morte”, dove i giovani calciatori spesso vomitavano dalla fatica.

 

E chi vomitava non veniva chiamato a giocare. La disciplina lo ha forgiato fin da piccolo. Quando è tornato a Kiev, o come preferisce chiamarla lui in ucraino Kyiv, ha visto sparire ad a uno ad uno i ragazzi con cui era cresciuto, aveva giocato, trascorso gli anni dell'adolescenza. Spariti in una nube tossica, ma non per colpa della radioattività, piuttosto per le armi, la droga, l'alcol. Con la fine dell'Unione Sovietica una generazione è stata divorata. Racconta: «Solo uno era sopravvissuto, gli altri erano entrati nei buchi neri della dissoluzione dell'Urss». E poi scrive una frase poetica, che ci fa capire perché Sheva è diventato il mito amato anche dai suoi avversari: «Non esisteva la luce, ma solo diversi gradi di buio». Da questo buio, lui è riuscito ad emergere, con il suo sorriso umile e l' immensa caparbietà.

 

La sua slavenska dusa, l'anima slava, quello struggimento continuo che non ti abbandona mai dall'amore alla guerra, non lo ha lasciato. E forse è proprio quello che lo ha salvato. E che ha fatto sì che anche dopo una bruttissima partita, Adriano Galliani, venuto a vederlo giocare in Ucraina, decise che doveva venire al Milan. La squadra che per lui è stata famiglia, amici («persone perbene i miei compagni di squadra»), crescita, vittoria. Quando il presidente Berlusconi gli comunicò che il Real Madrid lo voleva lui rispose così: «Il mio Real Madrid è il Milan».

 

Odiava perdere, racconta Paolo Maldini, «Lui voleva solo e sempre vincere». E così è successo anche il giorno del suo matrimonio con la bellissima modella americana Kristen, con cui oggi ha quattro figli, (e ai quali dedica così il suo libro: «Provateci sempre per non avere rimpianti»). Tutto è accaduto velocemente su un campo da golf, mentre stava giocando con suo suocero si sposò tra una buca e l'altra. E continuò a giocare. Quando gli chiesero come mai non si era fermato a festeggiare, rispose: «Dovevo vincere». Vincere come simbolo di rinascita continua. Così quando la squadra perse in modo insensato la partita contro il Liverpool a Istanbul, praticamente vinta al primo tempo (tre reti di vantaggio per il Milan), per anni Shevchenko ebbe incubi terribili: si svegliava gridando nella notte.

 

Ma anche questa sconfitta sparisce davanti al momento più importante della sua vita: il 28 maggio 2003 e il rigore segnato a Manchester alla Juventus. E la vittoria della Champions. In quel momento ha confessato che tutta la sua vita gli è passata davanti: il suo pallone radioattivo portato a casa e bruciato di corsa dai genitori, la prima trasferta da adolescente ad Agropoli, la scoperta che oltre la Russia esisteva un mondo. Lì, in Italia, gli regalarono dei jeans e una tuta così bella come non ne aveva mai avute. I tifosi gli allungarono anche qualche lira da riportare a casa. Lui comprò due profumi per la mamma e la sorella e un rasoio per il padre Nikolay. A cui sul frontespizio dell'autobiografia scrive: «Mi manchi tanto».

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