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L’elezione del Presidente della Repubblica

Il Quirinale? O Draghi al primo scrutinio o il Vietnam parlamentare

L’alternativa è secca, nonostante la nebbia mediatica e i tanti candidati al Colle. King maker per ora è Berlusconi, ma cosa aspetta Enrico Letta?

Il Quirinale? O Draghi al primo scrutinio o il Vietnam parlamentare

La politica di questi tempi complicati ci sta regalando in queste settimane, e per la verità anche un po’ in anticipo, perle di ovvietà sulla corsa al Quirinale. E ritratti più o meno convinti, appelli a improbabili moratorie, e scenari a tanto al chilo. Senza che nessuno dei leader decida di affrontare con serietà il tema dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica, cosa che riguarda innanzitutto l’interesse del Paese di avere un capo dello Stato autorevole, di prestigio interno ed internazionale, di riconosciuta fama e di comprovate capacità ed esperienza. Soprattutto dopo che Sergio Mattarella ha più volte confermato l’indisponibilità per il bene dell’istituzione a prolungare il suo mandato.

 

Piaccia o non piaccia, l’interesse effettivo del Paese ora coincide con la prospettiva che Mario Draghi venga eletto Presidente della Repubblica al primo scrutinio, con un numero di voti che può oscillare tra i 700 e gli 800 grandi elettori. Si tratta dell’unica risposta possibile agli aspiranti franchi tiratori che vorrebbero irresponsabilmente trascinare il Parlamento in una inconcludente serie di votazioni che non porterebbero da nessuna parte magari per settimane, dando l’immagine di un Paese frantumato e incapace di ritrovarsi in modo unitario in un momento solenne come quello dell’elezione del presidente della Repubblica, un Paese unito e coeso introno alla figura migliore che in questo momento offre il quadro politico e, insieme, la cosiddetta società civile. Perchè, oltretutto, sarebbe difficile spiegare all’opinione pubblica italiana e internazionale che avendo la disponibilità della personalità con tutti i requisiti per la carica si scelga invece di lasciarla in panchina.

 

O Draghi o il Vietnam parlamentare, dunque? Si, inutile nascondersi, questa è la secca alternativa e l’altissimo rischio che corrono il Parlamento ed il Paese, al di là di tutti i retroscena che si rincorrono sui giornali. Peraltro, la non elezione di Draghi indebolirebbe pericolosamente lo stesso Draghi, il governo, la credibilità internazionale di esso ed in definitiva aumenterebbero di molto i rischi di elezioni anticipate a maggio-giugno del 2022, cosa che tutti a parole vorrebbero evitare, con tutto ciò che ne conseguirebbe.

E con il danno che si sarebbe perpetrato al Paese di avere in definitiva se non bruciato almeno avvicinato le fiamme alla personalità a cui in questa fase storica il mondo guarda con rispetto, se non con invidia. Perchè è un fatto oggettivo: con tutto il rispetto che essi certamente meritano non si possono paragonare i tanti candidati e auto candidati all’attuale premier, essendo essi comunque irrimediabilmente obsoleti e senza un’autentica dimensione internazionale ben radicata in Occidente e rispettata ad Est e in Asia.

 

Chi è il king maker di questa operazione? Tra i tanti aspiranti, c’è un solo nome certo, per ora: Silvio Berlusconi. Il quale, consapevole com’è che malgrado le apparenze e forse anche le tentazioni non potrà mai assurgere al Colle più alto (ma fino ad un certo punto lo lascerà ancora credere), brucerà tutti sul tempo e dopo essere stato decisivo per la nomina di Mario Draghi a governatore della Banca d’Italia ed a presidente della Bce romperà gli indugi e lo proporrà al Paese e al Parlamento. Il Paese è felice di applaudirlo, il Parlamento seguirà. 

 

Come è noto, Berlusconi appoggiò la candidatura di Draghi alla Banca d’Italia anche contro il parere dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il quale telefonò a Francesco Cossiga per dirgli che stava facendo un errore imperdonabile ad accreditare Draghi con Berlusconi come il miglior governatore possibile, anche contro i disegni  dell’allora ministro dell’Economia Tremonti. Ciampi infatti  avrebbe voluto Padoa Schioppa. Anche sulla battaglia per la Bce Berlusconi fu decisivo nel convincere Angela Merkel. 

 

Naturalmente, e magari auspicabilmente, sul king maker ci possono essere delle variabili a patto che altri leader politici si sveglino, a partire da Enrico Letta, che avrebbe tutto l’interesse (magari d’intesa con Giuseppe Conte) a essere della partita. Anche altri protagonisti potrebbero contendere a Berlusconi la sua primazia su Draghi: in altri tempi avrebbe bruciato tutti sul tempo uno sfolgorante Matteo Renzi, ma oggi è troppo impegnato in attività all’estero e a difendersi in Italia dalle polemiche suscitate dalle stesse per trovare la lucidità necessaria. E comunque bisog riconoscergli senz’altro il merito di aver fatto sloggiare da palazzo Chigi il duo Conte-Casalino. Riteniamo che Salvini e Meloni contestualmente alla dichiarazione solenne di Berlusconi darebbero subito alle agenzie una dichiarazione congiunta per cointestarsi la scelta di Mario Draghi, sapendo che un eventuale prossimo governo di centro destra uscito vincitore dalle elezioni possa avere nel nuovo capo dello stato un formidabile garante internazionale, che non potrebbe far dubitare a nessuno circa la credibilità democratica e l’autorevolezza di un governo guidato da uno dei due. (Ovviamente non stiamo dicendo che vinceranno le elezioni, diciamo nel caso dovessero vincerle, e il precedente delle elezioni comunali non è dei migliori).

 

Quel che è invece certo, e che rassicurerebbe tutti gli schieramenti politici, è che con Draghi al Quirinale, sia subito sia dopo le elezioni politiche del 2023, chiunque fosse scelto per l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri avrebbe di per sè un’investitura e una copertura internazionale assicurata dal Colle a prescindere dal nome e dalla provenienza partitica. E gli stessi cittadini italiani ed europei saprebbero benissimo che nessun governo che nascesse in questa culla potrebbe entrare in conflitto con il Quirinale ed anzi ne dovrebbe seguire indicazioni, indirizzi, sensibilità e quant’altro. Infatti, (senza dirlo, caro Giorgetti) per i prossimi sette anni in Italia ci sarebbe davvero un semipresidenzialismo di fatto, anche perchè il Presidente della Repubblica i poteri li ha già, basta avere la statura politica e morale per esercitarli. E guarda caso tutto ciò comprenderebbe il 2026, che è il termine entro il quale la partita del Recovery dovrà essere giocata fino in fondo .

 

Se invece finiamo nel Vietnam parlamentare (Antonio Polito sul Corriere ha ritratto non a caso Camera e Senato come “un grande Gruppo misto”), l’elezione diventa un vero terno al lotto e chiunque può diventare presidente, basta prendere 506 voti dalla quarta votazione. Sulla linea di partenza nomi già ampiamente apparsi, a cominciare proprio da Berlusconi (che partirebbe col pacchetto più grosso di voti, gliene mancherebbero una cinquantina da reclutare in Parlamento, e lui saprebbe come fare).

 

Giuliano Amato, che avrebbe il vantaggio agli occhi di Draghi di poter essere magari un presidente a termine, i rapporti tra i due sono solidi e intensi; il taciturno, per l’occasione, Pier Ferdinando Casini che abilmente si muove nell’ombra; l’onnipresente Gianni Letta che si considera la punta più avanzata di un centro destra unito che sfonda a sinistra utilizzando non solo i buoni uffici di suo nipote Enrico, ma anche una lunga tradizione di buoni rapporti a sinistra a cominciare da quelli con il Pd romano.

 

Stiamo parlando comunque (Casini a parte) di protagonisti ultra ottantenni, cui va aggiunto per dovere d’ufficio anche Prodi, ma l’età non sarebbe un problema perchè l’altissimo ruolo istituzionale rappresenterebbe un formidabile elisir per far ringiovanire chiunque. Gli altri, seguono. Cartabia è la carta coperta di Sergio Mattarella: quando tutto risulterà vano nello scenario Vietnam potrebbe dare la zampata, e apparire all’improvviso vittoriosa all’orizzonte. E poi Paola Severino, Rosy Bindi, Marcello Pera…

 

Crediamo che se questa (Draghi o il Vietnam parlamentare) è la scelta vera, allora l’opinione pubblica che è grata a Draghi per come sta conducendo la lotta alla pandemia, per la complicata gestione del Pnrr e per la credibilità restituita al Paese sullo scenario internazionale, dovrebbe dare dei segnali inequivocabili innanzitutto presso i partiti di riferimento, le associazioni imprenditoriali e del terzo settore e tutti i canali di espressione che comunque la classe dirigente del Paese ha a sua disposizione. Evitando, per non confondere grano con loglio, i social e i suoi derivati.

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