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La Procura di Bergamo e il periodo buio del virus

Le indagini sul Covid sono utili se riportano in primo piano la sanità

Il servizio sanitario nazionale sta peggio di prima. Sinora se ne sono occupati solo Calenda, Renzi e Ricciardi. Schlein e Rocca alla prova del voto

Le indagini sul Covid sono utili se riportano in primo piano la sanità

Le carte, le chat e le ricostruzioni filtrate dall’indagine della Procura di Bergamo sul Covid in Lombardia (e di conseguenza in Italia) riaprono una ferita tuttora ingigantita dal dolore di chi ha perso i propri cari, una vera e propria generazione di anziani che è stata portata via nei primi mesi da un virus allora sconosciuto, da cure sbagliate (pensate all’idea di tenere i malati supini nell’idea di farli respirare meglio) o da crudeli coincidenze, prima fra tutte quella di dover andare in ospedale per altri gravi motivi e lì morire di virus tra sofferenze indicibili e solitudine. E’ dunque troppo vicino per ciascuno di noi il ricordo della prima pandemia in epoca moderna per affidarsi solo all’indagine dei magistrati, indagine che difficilmente potrà indicare colpevoli certi nello scaricabarile delle responsabilità e, anche, nella difficoltà di prendere decisioni tempestive di apertura e chiusura nell’emergenza totale. Certamente tuttavia, riaprire la ferita è utile solo se di nuovo non ci facciamo sommergere dalle parole, anche di quelle dei virologi che l’inchiesta ha fatto riapparire d’incanto sui giornali e in tv, se non cadiamo nelle trappole degli schieramenti politici, se non contrapponiamo la regione leghista al governo grillino, Fontana a Conte, e se cerchiamo di rimanere lucidi per mettere in fila non solo quanto viene fuori da un’indagine già troppo presto incasellata nel teatrino politico del già visto ma anche le esperienze personali e il giudizio che ciascuno di noi si è fatto in proprio su quel drammatico periodo che solo gli orrori della guerra in Ucraina hanno potuto superare.

 

Ho vissuto quel periodo da medico in un territorio, quello del Lazio che, per fortuna, non ebbe ad avere l’emergenza della Lombardia, ma alcune cose sono ora più chiare e vanno messe in fila. 

 

Uno: il virus circolava diversi mesi prima che si sapesse dei fatti cinesi e della probabile fuoriuscita dell’infezione dal laboratorio di Wuhan in Cina, moltissime in quel periodo erano le influenze più lunghe e dolorose, quasi una sorta di long Covid, che vennero curate come influenze o polmoniti virali, molto spesso con successo. Quindi è assolutamente certo che in Lombardia, dove i viaggi in Cina di manager e imprenditori erano molto più frequenti, il virus circolasse almeno da settembre 2019, di qui l’esplosione difficilmente controllabile. Secondo aspetto importante: la sanità privata, che in Lombardia è presente in misura molto più elevata che in altre regioni, ebbe a chiamarsi fuori dal contrasto al Covid lasciando alle sole strutture pubbliche l’onere di farvi fronte, e queste non potevano bastare. Infine, per quel che riguarda la diffusione più capillare del virus fuori dalla Lombardia nessuno ricorda, a quanto pare nemmeno la Procura di Bergamo, che l’annuncio della chiusura venne dato dal governo Conte con anticipo tale da consentire ai fuori sede o a chiunque volesse lasciare Milano di poterlo fare, cosa che certo non aiutò il contenimento della pandemia.

 

Due. Il lockdown lasciò comunque il Paese diviso in due con il Nord molto colpito al cuore dal virus e squassato dalle sirene delle ambulanze, mentre il Centro Sud non ebbe una  emergenza paragonabile. E’ in questo periodo che si impone la narrazione, ai limiti del puro intrattenimento, di Giuseppe Conte: ci ricordiamo tutti il “distanziamento sociale” confuso con il puro e semplice distanziamento fisico, la necessità di avere un cane da portare a spasso per poter uscire di casa, o la possibilità di dichiarare di frequentare “affetti stabili” per potersi spostare anche in altre città. E le dirette Facebook in tarda serata accrescevano i follower dell’allora premier, mentre fiorivano i meme soprattutto laddove minore era la pressione del virus. Ovviamente, si tratta di narrazioni sulle quali la magistratura nulla può dire, mentre sarebbe importante sapere qualcosa di più sull’altra faccia di quella gestione, cioè il potere senza controllo del commissario Domenico Arcuri, la ricerca delle mascherine corredate di “commissioni” e magari non proprio perfette, i famigerati “banchi a rotelle” mai utilizzati a scuola e oggi finiti in qualche discarica o seppelliti in qualche capace magazzino. Per non parlare delle “primule” che avrebbero dovuto contrassegnare i centri di vaccinazione e che per fortuna il successore di Arcuri scelto dal governo Draghi, il generale Figliuolo, fece presto ad accantonare. 

 

Tre, i medici e infermieri martiri e la sanità troppo presto dimenticata. Ci ricordiamo tutte le foto stravolte dei nostri colleghi durante l’emergenza: vennero anche, in molti casi non a torto, definiti eroi. Ben 379 colleghi persero la vita a causa del virus contratto a contatto con i malati. Oggi a emergenza finita, la professione medica sta forse vivendo il momento meno brillante di una lunga storia, tra le sirene dell’estero, i medici costretti a gettone nei pronto soccorso, la Calabria che ha fatto ricorso ai medici cubani e le regioni che non hanno più fondi. C’è anche l’impulso all’assistenza territoriale attraverso le risorse del Pnrr, ma non è facile mettere a terra in tempi brevi un nuovo modello basato anche sulla Telemedicina mentre il personale sanitario nel migliore dei casi resta lo stesso, è più stanco di prima, chi può lascia o per andare in pensione o per andare all’estero e i tanti che restano al proprio posto per fare fino in fondo il proprio lavoro devono sempre più spesso far fronte a strutture obsolete e sfiducia da parte dei malati e delle loro famiglie.

 

Quattro. La politica continua a non occuparsi delle condizioni del servizio sanitario nazionale: alle Regioni mancano cinque miliardi, si contano 98 milioni di prestazioni in arretrato, al Gemelli (il più importante ospedale d’Italia), ci sono in media 80 persone in lista d’attesa al pronto soccorso, in barella aspettando che si liberi un posto letto, in quindici anni di posti letto ne sono stati tagliati 35 mila e dunque c’è da chiedersi come si fa a curare tutti e bene se mancano i posti letti, i medici (soprattutto specialisti) e gli infermieri? A conti fatti, i danni del Covid sulla sanità hanno ridotto l’ aspettativa di vita di due anni mentre, per fare un esempio, proprio l’istituzione del servizio sanitario universale ha ridotto la mortalità dei bambini dal 20 per cento dei primi anni settanta a meno del 2 per cento di oggi. E ora il cosiddetto regionalismo asimmetrico di cui si sta discutendo su pressione delle regioni più ricche rischia seriamente di aggravare i divari tra la sanità del Nord e quella del Sud: chi deciderà i Lep, ciò i livelli essenziali di prestazione? Ricordiamoci che il primo elemento di lotta alla povertà è il diritto alla salute. Eppure nessun partito, come sanno bene i lettori del nostro sito, ha parlato di sanità in campagna elettorale e nessuno lo fa ora.

 

Con una eccezione, di cui voglio dare conto: Azione e Italia Viva, cioè Carlo Calenda e Matteo Renzi, con la regia competente di Walter Ricciardi, hanno organizzato nei giorni scorsi a Roma una “mobilitazione sanità”, un evento a Roma con tutti i rappresentanti delle nostre categorie professionali e con molte proposte concrete per le emergenze, a cominciare dal finanziamento necessario: 10 miliardi per eliminare in un anno le liste d’attesa.  Purtroppo, nessun giornale o tv, a testimonianza anche della totale mancanza di sensibilità sul tema del mondo dei media, se n’è occupato. Ovviamente fidiamo che Elly Schlein, nuovo segretario del Pd, faccia seguire fatti concreti all’annuncio che il nuovo corso mette la sanità tra le priorità del Paese, così come siamo fiduciosi sulla scelta di tenere per sè la delega alla sanità fatta da Francesco Rocca, nuovo presidente della Regione Lazio. 

 

E’ poco probabile che l’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della pandemia possa approdare a risultati di rilevanza penale, vista la discrezionalità (e, nel caso contestato, la difficoltà) delle scelte politiche, ma essa avrà prodotto effetti positivi solo se dovesse riuscire ad accendere davvero i riflettori sulla reale situazione del servizio nazionale, quella di oggi, e sulla necessità di reperire le risorse economiche per rivitalizzarlo. Altrimenti siamo di fronte ad un balletto già visto, virologi compresi. E le condizioni generali del Paese arretreranno sempre di più perchè, ovviamente, la salute è il più primario dei beni e il Servizio sanitario nazionale è (o meglio, era) la più importante infrastruttura pubblica italiana.

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