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Disney, Crudelia Demon e gli eccessi del politicamente corretto

Pregiudizi e abuso di retorica dell’immagine della modaiola nascono anche così, da tre secoli di antipatie e settant’anni di storytelling esagerati

Disney, Crudelia Demon e gli eccessi del politicamente corretto

A fine mese uscirà su Disney+ (sì, ci stiamo purtroppo abituando a non andare al cinema) il nuovo film dedicato al personaggio di Cruella De Vil, alias Crudelia Demon. Dunque, c’è una nuova favola da promuovere e tutto è dimenticato, a partire dalle polemiche delle scorse settimane sul bacio del principe a Biancaneve dato senza consenso, una delle solite operazioni autopromozionali dell’attivismo politicamente corretto americano che spesso si schiantano e breve raggio per via delle premesse culturali mediocri o del tutto sbagliate su cui si basano. In  questo caso la fattispecie era la seconda: orchestrare un’accusa sull’interpretazione che dell’antichissimo mito di Biancaneve diede Walt Disney nel 1937 supera il ridicolo (in altre versioni della favola sputa da sola il boccone di mela, per esempio) e le incaute colleghe americane che hanno sollevato il caso sono state travolte da dotte spieghe, perfino per il diritto infatti il principe ha agito in stato di necessità, ma anche da efficacissimi meme perculanti. 

 

Dunque, rieccoci alla nostra Crudelia, che torna sul grande schermo in una versione parallelo-prequel: interpretata da Emma Stone, che al momento del rilascio del film giurerà di essersi divertita moltissimo come ha fatto Glenn Close nei due film precedenti, Cruella è “Estella”, una designer di moda che, a causa della rivalità con la boss, interpretata da Emma Thompson, si trasforma in un alter ego negativo. Al momento non è ancora apparso all’orizzonte un idiota pronto a spiegarci quanto sia scandalosa una figura cinematografica così “divisiva”, usiamo degli aggettivi ubiqui del momento, e quanto potrebbe danneggiare la psiche dei più fragili (ormai nessuno cerca di fare opinione o suscitare il dibattito: si persegue solo il consenso più facile e, almeno apparentemente, consolatorio). Vere pellicce, ovviamente, da questo film sono assenti: lo erano già nella prima versione non animata della storia, quella con Glenn Close datata 1996, benché il film non fosse dichiaratamente anti-fur, anzi. All’epoca Chantal Nadeau, professore di Gender e Women's Studies e Criticism e Interpretative Theory alla University of Illinois at Urbana-Champaign, scrisse anzi che la pellicola era “un esempio di provocatoria retorica burlesque pro-pelliccia”, uscito in un momento di rinascita del commercio di capi in pelo animale, e che “il suo sequel non presentava i manifestanti anti-pelliccia in una luce lusinghiera”. 

 

La Walt Disney, presa di mira negli ultimi mesi da chiunque cerchi un po’ di pubblicità gratuita e abbia mezzi adeguati per diffondere le proprie idee (l’idolo dei colleghi americani è ovviamente Rowan Farrow e il Pulitzer vinto con la campagna #metoo, da cui ricerca spasmodica di altre occasioni per conquistare l’ambitissimo premio senza rischiare la vita su fronti di guerra), ha fatto sapere che nessun animale “è stato maltrattato”, tantomeno ucciso, per girare le sequenze. Che poi le vesti usate siano tutte sostenibili e non inquinino invece mari e terreni a botte miliardarie di microparticelle di plastica che soffocano i pesci è un’altra questione, ma capirete bene che se iniziassimo a mettere in discussione l’intero sistema dell’industria della moda non ne verremmo più fuori, insieme con circa mezzo miliardo di persone che di vestiti campano e dunque, per il bene di tutti, al momento gli indiziati di ogni nequizia sono i produttori di pellicce. 

 

Bisogna anche dire che sui comportamenti scorretti, Cruella alias Crudelia De Mon non si fa mancare niente: nell'era del benessere, del veganismo e del consumismo più o meno etico, fuma sigarette che sembrano intinte nell’assenzio tanto son verdi, scuoia cuccioli, è pessima con i propri sottoposti ed è assetata di sangue. “L'ultima icona dello stile trasgressivo”, l’ha definita qualche tempo fa il quotidiano inglese Guardian, elencando quanta della moda di questa e della prossima stagione sembri ispirata all’optical che del suo personaggio, il disegnatore Marc Fraser Davis, fece nei primi Anni Sessanta lavorando sul romanzo di Dodie Smith e che da allora è rimasto il primo riferimento per ogni costumista.

Cruella è la più grande cattiva mai apparsa nel mondo della moda; la sua rivale più prossima, Miranda Priestly del “Diavolo veste Prada”, uccide con lo sguardo. Devil Wears Prada, potrebbe aver dato ai suoi subordinati degli sguardi molto avvizziti, ma non ha rapito i cuccioli per migliorare il suo abbigliamento. 

 

Resta invece da domandarsi perché al cinema o in televisione, prendete ad esempio pure quel discutibile serial che è “Made in Italy”, le direttrici delle riviste di moda o le stiliste, ma più le prime delle seconde, siano sempre raffigurate come esseri umani orribili: anaffettivi, antipatici, arrivisti, snob per compensazione di lacune socio-anagrafiche. Qualunque film sulla moda prendiate in esame, da “Roberta” dove figurava un Fred Astaire in gran forma a “Qui etes vous Polly Maggoo” di William Klein, caposaldo dell’innovazione modaiola Sixties fino a Pret à Porter di Robert Altman, vi troverete solo un esercito di megere. Di jene, come si dice in gergo. Che è cosa in parte vera, ve lo dico per esperienza e in prima persona, perché la moda – ambiente selettivo per sua natura e nonostante le recenti pretese di ecumenismo e inclusività – si basa al contrario sull’esclusività del possesso dettata anche dal prezzo degli oggetti e dei capi, e in parte è dettata invece da una vischiosissima melma in cui entrano sessismo (le donne son vanitose), pregiudizi plurisecolari (il giornalismo è stato uno dei primissimi ambienti ad aprirsi alle donne, già Addison e Steele osteggiavano le rivali denigrandole) e invidia nei confronti di un ambiente che si percepisce come inarrivabile e snob e che dunque per reazione si tende a disprezzare (dopotutto è moda). 

 

L’immagine della bitch, della stronza modaiola, è talmente radicata che persino io, quando qualche settimana fa ho guardato su Netflix qualche puntata del serial “The bold type”, ambientato nella redazione di un mensile di moda (fra l’altro, bel gioco di parole: bold type significa al tempo stesso carattere di stampa maiuscolo e tipo di carattere), non potevo credere che gli sceneggiatori avessero fatto uno sforzo nella rappresentazione della figura della direttrice, donna assertiva sì e non potrebbe essere altrimenti, ma soprattutto empatica. Pregiudizi e abuso di retorica nascono anche così, da tre secoli di antipatie e settant’anni di storytelling esagerati.

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