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La politica che verrà, se verrà

La partita del Colle segna il fallimento di personalismo e populismo

Lega e 5S ne escono a pezzi e fanno i conti con difetti congeniti. Ma le fragilità del sistema-partiti è generalizzata. Un anno non basterà per ricostruirsi

La partita del Colle segna il fallimento di personalismo e populismo

Nei partiti nulla rimarrà come prima dopo le elezioni che hanno confermato Sergio Mattarella al Quirinale. Senza dubbio il Paese e le istituzioni hanno guadagnato in stabilità. Il prestigio e l’autorevolezza del capo dello Stato al suo secondo mandato sono un biglietto da visita formidabile dell’Italia nel mondo, e il tandem con Mario Draghi premier rafforza la posizione dell’Italia nello scacchiere europeo ed internazionale. Ma, come hanno già scritto tanti analisti, il quadro che la politica consegna ai cittadini-elettori è di un terremoto in cui le macerie sono davvero tante e gli edifici da ricostruire pure. Due considerazioni prima di addentraci nei sommovimenti che agitano ile singole formazioni e che preannunciano un lungo, lunghissimo anno di campagna elettorale. 

 

La prima: la crisi di leadership in molti partiti è lo specchio del personalismo esasperato di cui si è nutrita la politica italiana negli ultimi venticinque anni. Più il culto della personalità è cresciuto, più le strutture-partito hanno abdicato alla loro forma consociativa e di condivisone dei passaggi cruciali e decisionali. Finendo con l’esaltare la posizione di individui che spesso hanno macinato consenso ma senza quella maturità politica e quella saggezza istituzionale che dovrebbero guidare l’azione dei veri capi. 

 

La seconda: i due partiti di estrazione populista usciti vincitori dalla elezioni del 2018 – Lega e M5S -  sono quelli che meno hanno retto all’urto dell’elezione quirinalizia, sancendo la fine di un modello incapace di reggere a stress test di rilievo e molto poco solido di fronte a scenari impegnativi. È probabile che Matteo Salvini resisterà ancora alla guida del Carroccio, ma è più vulnerabile e debole rispetto a una settimana fa. Ha sbagliato su tutta la linea.

 

Il primo errore si è manifestato sulla candidatura della presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, perché i 70 voti mancanti in parte sono da ascrivere proprio alla Lega. L’inizio di una china pericolosa rispetto agli ordini del vertice, un segnale inequivocabile per la sua leadership che ora deve fare i conti con la tenuta futura. Quanto governatori come Luca Zaia o Massimiliano Fedriga, o lo stesso ministro dello Sviluppo Economico Gian Carlo Giorgetti, asseconderanno ancora gli errori del segretario è forse questione di tempo. Anche se va detto che la Lega, dagli anni della fondazione bossiana, ha imparato molto stando a Roma e nelle aule parlamentari, facendo tesoro di una lunga gavetta che le ha permesso di strutturarsi e organizzarsi. Missione in cui fallisce ancora il Movimento Cinque Stelle. La guerra ormai dichiarata tra Giuseppe Conte e Lugi Di Maio rischia di far deflagrare una formazione molto fragile, priva di una matrice culturale e politica di ispirazione, troppo ondivaga e frammentata. E che è nata movimentista ma che poi è rimasta in mezzo la guado, restando ferma in una non-forma: né movimento, né partito, ma un ibrido permeato da rivalità sempre più forti.

 

La tensione è alta. Tuttavia ad essere coinvolto da una mutazione inevitabile è il più il centrodestra che il centrosinistra, anche se con alcune precisazioni. Giorgia Meloni ha dichiarato di voler partire dalla “rifondazione” di un’alleanza che non esiste più. Sarebbe, infatti, un suicidio politico per Fratelli d’Italia continuare a riconoscersi in un blocco da cui è palesemente fuori. L’elezione di Mattarella alla fine è stata appoggiata da tutti i partiti di maggioranza, l’unica forza sconfitta politicamente sul risultato è quella della ex An, che sin dalla prima ora si è sempre dichiarata contraria al secondo mandato del capo dello Stato. Anche Forza Italia ora è in libera uscita e proclama Silvio Berlusocni leader del centrodestra dando vita pubblicamente al regicidio di Salvini. Il tutto mentre Giovanni Toti di Cambiano lancia dalle pagine di un noto quotidiano l’idea di un polo moderato con gli azzurri e con i centristi di Matteo Renzi. Sì, l’idea è quella di un ‘grande centro’. Un polo nuovo ma dalle vecchie radici che finirebbe però per travolgere la Lega mandando all’aria il progetto di unire centro e destra. Chi ne trarrebbe vantaggio è proprio la Meloni. 

 

Mel centrosinistra altra storia. Enrico Letta, segretario del Pd, esce rafforzato e vincitore dal match Quirinale seppure con un low profile che in termini di consenso potrebbe non dare frutti. Va dato atto al leader Pd di essere riuscito a calmare i dissidi interni e, seppure giocando più in difesa che in attacco, a portare a casa una delle due opzioni su cui dal primo giorno ha lavorato. L’altra era quella di spostare Mario Draghi da Chigi al Colle. Con Leu il rapporto tiene ma le incognite vere per il capo del Nazareno sono principalmente due: il rapporto con i 5S e i calcoli di Matteo Renzi per il futuro. Perché l’implosione dei primi e la possibile migrazione del secondo verso una nuova forza centrista, in grado di riunire le anime democratico-cristiane presenti nei due schieramenti di riferimento, potrebbe fa saltare il famigerato ‘campo largo’ da schierare per le politiche del 2023. 

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