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La dittatura “body positivity” e la rinuncia a migliorare se stessi

Dalla collezione curvy di Alessandro Dell’Acqua al caso Noemi a Sanremo, tutte le ipocrisie sull’accettazione del proprio corpo e sulla “body positivity”

La dittatura “body positivity” e la rinuncia a migliorare se stessi

Qualche giorno fa sul Foglio, perdonate l'autocitazione ma credo sia giustificata dalle righe a seguire, sintetizzavo l'applicazione difficile, ipocrita e ondivaga della body positivity nell'ambiente della moda: una sorta di imposizione mediatica e di marketing da cui tutti gli stylist tentano di affrancarsi inserendo una bellissima ragazza con due o tre taglie in più della 38 normativa in sfilata e nella campagna pubblicitaria (nel confronto diretto, le tre taglie in più sembrano sei: si ottiene un effetto magnificante senza dover stravolgere la linea dei vestiti). Gli stilisti e gli stylist suddetti non hanno però ancora imparato a cavarsela col lessico.

 

Al momento, la locuzione più frequentata per definire le ragazze non conformi inserita nelle presentazioni è “dotate di fisicità importante”, oppure "fuori dai canoni consueti", che equivalgono a definire una sostanziale estraneità dal contesto. Entrambe vengono accompagnate da una smorfia o da un sospiro, per lasciar intendere la fatica improba fatta per infilare tutti i rotolini in abiti pensati per silfidi che ne slancino il disegno e la costruzione, senza riportarla alla materialità del peso umano.

 

Perfino uno stilista a proprio agio con la femminilità come Alessandro Dell'Acqua, dopo aver disegnato una gradevolissima collezione in tessuti stretch e confortevoli per il marchio Elena Mirò di concerto con l'azienda produttrice, la Miroglio, ha lanciato una campagna pubblicitaria a supporto interpretata da Lara Stone, che è alta quasi un metro e ottanta e pesa 57 chili, suggerendo dunque a chi la guarda l'idea che le donne fuori dai canoni debbano identificarsi o aspirare a forme come la sua.

 

Dunque, per non "cadere nei cliché della moda curvy", sua dichiarazione della scorsa settimana, ha fatto specchiare le curvy in una silfide. La questione avrebbe potuto e potrebbe essere ulteriormente approfondita, con buoni margini di ragione e punti a favore di entrambe le posizioni; per esempio: perché solo una curvy deve interpretare una collezione pensata per le curvy? Perché non potrebbe essere interessante mostrare alle taglie 46-48 che quella collezione sta bene anche alle magrissime? Oppure e al contrario: perché una donna taglia 48 dovrebbe riconoscersi in una donna con cinque taglie in meno?

 

Mentre appunto mi lambiccavo sulla questione, è scoppiato l'unico caso di polemica interessante attorno a questo Festival di Sanremo fatto di bei vestiti e interessanti costumi per personalità marginali e battute trite, e cioè il dimagrimento di Noemi. All'improvviso, le stesse testate familiari o femminili che fino alla settimana prima sbandieravano la body positivity come una conquista di civiltà – ve ne citiamo due, Vanity Fair e Io Donna – si sono dedicate all'esaltazione del miracoloso dimagrimento della piccola star nazionale (15 chili, neanche la fine del mondo dopotutto), esaminandone poi con il supporto di dietologi il regime alimentare, la sua applicabilità uber alles, insomma dispiegando tutto il classico strascico e corredo di informazione che da circa mezzo secolo, cioè dal primo timido avvento della body positivity, segue a un dimagrimento famoso.

 

Lì sono partiti i primi commenti negativi sui social. Quando la ragazza, orgogliosissima, è comparsa sul primo gradino della scalinata di Sanremo in un bellissimo abito vintage di Dolce&Gabbana, fasciante e riflettente di mille specchietti taglio déco, i supporter della body positivity a prescindere hanno rotto le dighe, arrivando addirittura ad accusarla di voler dare il cattivo esempio.

Volessi essere maligna, direi che un esercito di invidiosi ha riversato su Noemi il proprio astio per essere riuscita dove loro non hanno ottenuto niente, e cioè perdere peso in una società che, sotto la superficie ipocrita dell'accettazione universale, ancora e molto giudica, perché qualche migliaio di anni di canoni estetici votati alla snellezza non si cancellano in qualche decennio (si, mi sembra già di sentire le obiezioni su Rubens e la Pampanini: gli uomini che amano le donne formose sono sempre esistiti, tanto più in secoli dove avere riserve di grasso equivaleva a sopravvivere alle carestie e a poter generare e nutrire i piccoli, e la "donna mediterranea" è un concetto post-bellico che parla di formosità, non di grassezza; in ogni caso guardate la Venere del Botticelli, Simonetta Vespucci, e ditemi se una ragazza siffatta non sarebbe bella ancora oggi).

 

Vorrei però cogliere questa nuova occasione che mi viene offerta per discutere le implicazioni non tanto sociali o culturali, ma soprattutto psicologiche e semantiche della body positivity. Partiamo dal concetto: positivity significa accettazione. Accettazione positiva. In sintesi: mi piaccio per come sono. E se non mi piaccio, che cosa faccio? Resto in un corpo in cui non mi riconosco? Mi deprimo perché devo accettarmi per quello che sono anche se non mi sta bene e non sono d'accordo? Se ”il mio corpo è solo mio”, mantra della body positivity, perché non devo avere il diritto di cambiarlo se mi va? Per dare soddisfazione a chi? Ergo: siamo sicuri che il concetto della body positivity non sia stato introiettato dalla gente come la nuova dittatura della (aiuto, sto per scriverlo) grassezza?

 

Qualche giorno fa, su Facebook, il mio bellissimo amico e collega Antonio Mancinelli, che dagli anni dell'infanzia ha cambiato spesso peso ponderale sempre però tenendosi quella sua faccia da principe romano, ha scritto una frase che mi ha colpita molto: “Perché dobbiamo per forza esaltare alcuni difetti come se fossero pregi, se la persona che ne è portatrice non ne è contenta? Da ex grasso, poi magrissimo, poi grasso, poi magro e ora di nuovo paffuto (eufemismo) mi guardo allo specchio e non mi piaccio: perché dovrei essere un cattivo modello di non accettazione se ammetto che ora, quando mi guardo allo specchio non "mi" riconosco?”

 

Nel giro di un paio di anni dunque, la body positivity ha innescato un meccanismo perverso e credo inedito di colpevolizzazione endogena ed esogena: mi sento colpevole di voler cambiare, colpevole agli occhi del mondo di sentirmi colpevole ai miei stessi occhi. Una spirale demoniaca di cui è caduta vittima anche Lady Gaga che, dopo aver rimodellato il naso e aver dato nuove proporzioni a viso e corpo, è stata colpevolizzata per essersi voluta distaccare, esteticamente, da quei fan che alle origini della carriera aveva attratto rivendicando una non-adesione ai canoni riconosciuti della bellezza in occidente. I famosi "little monster". Ma siamo sicuri che sia giusto dire al brutto anatroccolo che la sua lontananza dagli standard estetici della società in cui vive è straordinaria e unica se lui non la ritiene tale o se, al contrario, anela a diventare un cigno bianco?

 

Perché ormai posso sognare di svegliarmi in un corpo da donna, o da uomo, perché posso addirittura dichiarare di perseguire una trasformazione biologica e di genere, venendo per questo applaudito e favorito, ma non posso invece ammettere, come ha fatto Noemi, di aver intrapreso un cammino di semplici abitudini alimentari e di ginnastica per far combaciare la mia immagine reale a quella ideale quando ho ancora l'età e la voglia di farlo e di godermi il risultato? Perché, in fin dei conti, quel genere di bellezza che non è solo geni di nascita, ma è anche disciplina e cura di sé, è ancora così osteggiata?

 

Ve lo dico io perché: proprio perché è volontà, e disciplina, perché costa sforzo, e impegno, e rinunce. E perché non combacia con la morale dell'antivanità, della "bellezza interiore" nella quale siamo cresciuti. Un combinato micidiale, a cui è più facile rispondere con l'adeguamento a un canone impreciso che dovrebbe soddisfare tutti e che invece a tutti lascia in bocca il sapore amarissimo dell'ipocrisia.

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