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Leadership, pandemia e politica

Se la seconda estate con il virus non ripete gli errori della prima

Dove andrà Mario Draghi? Ci vorrebbe un movimento di opinione per saldare le scelte del premier con gli interessi del nostro Paese. E intanto Fedez...

Se la seconda estate con il virus non ripete gli errori della prima

L’Italia si avvia, oltrepassata la soglia anche meteorologicamente simbolica del Primo maggio, alla sua seconda estate con il Covid, il virus che ci ha portato quasi del tutto via una generazione a cui eravamo molto legati, e anche molte persone più giovani.
L’estate scorsa era stata sostanzialmente sprecata tra Stati Generali, banchi a rotelle, app Immuni e tante, troppe chiacchiere: ora che si discute di Giuseppe Conte leader potenziale dei Cinque Stelle, e che il suo più convinto e affettuoso interlocutore nel Pd, Goffredo Bettini, parla e scrive a tutte le ore di un governo estromesso ingiustamente è bene ricordare a noi stessi alcune cose di un passato recentissimo che tutti abbiamo vissuto come al rallentatore dei lockdown, ma che ciononostante ci si ostina a vedere o sfocato o attraverso lenti di parte.
Ecco alcuni passaggi da mettere bene a fuoco.

 

La parabola del governo Conte2. A gennaio e febbraio dell’anno scorso si discuteva della crisi di governo in arrivo. Fu proprio l’irrompere della pandemia ad accantonarla e a restituire il potere a palazzo Chigi con la dichiarazione dello stato di emergenza e il tentativo di gestirlo. I contagi, le vittime della Lombardia e i camion militari con le bare di Bergamo occuparono le nostre giornate, in attesa delle conferenze stampa in tarda serata dell’allora premier che ci parlava di affetti stabili e autocertificazioni nella primissima fase di chiusura e di “potenza di fuoco” degli aiuti (750 miliardi subito a disposizione degli italiani) nella seconda, quella tra aprile e maggio.
Vennero invece fuori, e non poteva essere altrimenti, i problemi cosiddetti strutturali dell’Italia, dal debito elevato che ovviamente impediva di mobilitare le risorse che nello stesso tempo stava impiegando la Germania e, soprattutto, l’incapacità dell’Inps di erogare in tempi brevi e agli effettivi aventi diritto i fatidici “ristori”, cassa integrazione ai dipendenti delle aziende private  o i 600 euro alle partite Iva (mentre gli statali si eclissavano in smart working a stipendio pieno).

Pur tuttavia, contagi e vittime diminuiscono e mentre Conte brucia la Commissione Colao e si specchia negli inutili Stati generali a Villa Phamphili l’Europa fa la cosa giusta, mette sul piatto della crisi fondi rilevanti e ne destina all’Italia una fetta importante, 220 miliardi tra prestiti e contributi a fondo perduto: l’allora premier si attribuisce il merito di averli ottenuti, mentre era chiaro che ci erano stati assegnati in quanto paese più colpito dalla pandemia ed economicamente più debole. 

 

I fondi comunque c’erano e si poteva pensare con più possibilità di programmazione al futuro prossimo, cosa che in autunno si vide con chiarezza che non era stata fatta: il tema fondamentale della scuola venne esaurito nella faticosa ricerca dei banchi a rotelle che arrivarono comunque tardi e rimasero inutilizzati; la medicina di base per evitare di intasare gli ospedali venne lasciata alla buona volontà di alcuni medici di base che si presero e si prendono tuttora la responsabilità di curare i contagiati non esattamente in base al protocollo del ministero della salute che prevede esclusivamente paracetamolo e preghiere, nemmeno antinfiammatori; la campagna di vaccinazione venne preparata solo pensando ai costosi contenitori, le primule di Arcuri e di Boeri e non al contenuto; nel frattempo alcune questioni economiche di cui pure il premier a più riprese aveva annunciato la soluzione restavano impantanate: la strombazzata revoca della concessione ad Autostrade spariva dai radar, mentre sulla rete si viaggiava ad una corsia su tutti i viadotti e le gallerie per timore di nuovi cedimenti in assenza di manutenzione; l’Ilva, affidata ad Arcuri, restava in attesa di nazionalizzazione, così come Alitalia, per non parlare delle centinaia di vertenze industriali. In questo sintetico bilancio evitiamo di aggiungere i temi tuttora al vaglio della magistratura, come l’affare delle mascherine (tangenti per 72 milioni di euro su circa un miliardo di forniture cinesi), il giudizio sulla zona rossa ad Alzano ed altri filoni d’indagine.

 

E’ in queste condizioni di divario forte tra la realtà e la narrazione governativa dell’epoca che, mentre il virus si riaffaccia con prepotenza, si comincia a discutere dell’adeguatezza del governo Conte2, prendendo a pretesto la governance del Recovery plan. Un mese passa alla ricerca vana dei fantomatici “responsabili” in Parlamento, transfughi stavolta nobilitati dalla presunta buona causa, ma la cosa non funziona e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incarica Mario Draghi, ex presidente della Banca centrale europea e già salvatore dell’euro, di formare un governo di unità nazionale. “Se non ora quando”, scrisse questo sito poco prima di una decisione che taluni ritenevano che il capo dello Stato avrebbe esitato prendere. 

 

La svolta del governo Draghi. Il nuovo premier ha sostituito il commissario Arcuri con un generale dell’Esercito che viene criticato dai fan del predecessore solo perchè usa la tuta mimetica o la divisa d’ordinanza e ha concentrato il suo lavoro sulla campagna di vaccinazione, (che ha da pochissimo raggiunto l’obiettivo del mezzo milione di vaccinati al giorno, venti milioni di italiani in totale sinora tra prime e seconde dosi, soglia di sicurezza a settembre) e sul Recovery plan, presentato a Bruxelles nei tempi e nei contenuti chiesti dalla Commissione europea.
E’ stato prudente sulle riaperture, frenando magari a torto su quelle dei centri commerciali e dando giustamente via libera alle fiere del Made in Italy a partire dal 15 giugno. Ha difeso Speranza per non dare un messaggio di illusorio cambiamento sul virus e per tener dentro al governo il partitino Liberi e uguali, ma ha contenuto il ruolo dei suoi consulenti e ne ha limitato i danni (altra cosa, lo sappiamo, è vedere il ministro della Salute  sporcarsi le mani, uscire dal suo ministero e farsi vedere nei punti caldi della pandemia e della sanità). Soprattutto, Draghi ha dato un messaggio di pragmatismo, all’insegna del “rischio ragionato” necessario a convivere con il virus e a salvare l’economia. E ha anche in buona parte sopito lo scontro con le regioni, imponendo la vaccinazione prima ad anziani e fragili.

 

Ha poi risistemato con poche mosse, e questo è un fatto rilevante che ha effetti altrettanto rilevanti su tante cose a cominciare dal maggior potere contrattuale con i padroni dei vaccini, la collocazione internazionale dell’Italia in precedenza sbilanciata gratuitamente verso Cina e Russia.  Contemporaneamente, ha dato una guida sicura all’intelligence con Franco Gabrielli, tagliando la gestione casereccia del predecessore. Ha inviato un segnale forte a Erdogan in sintonia con Biden e, dopo esserne stato il leader economico, è ora il leader politico dell’Europa, visto che Angela Merkel è in uscita dopo 16 anni di “regno” ed Emanuel Macron deve vedersela con una difficile campagna d’autunno per giocarsi la rielezione.

 

La forte credibilità internazionale del premier ora deve estendersi al Paese, attraverso la convivenza ordinata via vaccini con il virus, la messa a terra del Recovery plan, la ripresa dell’economia che dovrà alleviare il solco tra garantiti e non garantiti che la pandemia ha acuito, la risoluzione delle questioni industriali che si trascinano. Non sono cose da poco, considerata lo stato della pubblica amministrazione, delle infrastrutture (Alta velocità a parte), la situazione dei giovani tra abulia e voglia di andarsene all’estero, la complicata fase dei partiti che hanno presa sulla società inversamente proporzionale al potere che tuttavia conservano, e che non riescono a trovare i candidati per guidare passabilmente le nostre grandi città; la magistratura, uno dei poteri chiave della democrazia, che non ha saputo reggere al maggior ruolo avuto dopo Mani Pulite e ha per così dire fatti propri tutti i difetti della politica che aveva fortemente indebolito: lo spettacolo non è dei più edificanti e ritrovare un equilibrio sarà arduo. E si potrebbe continuare.

 

Da questo punto di vista, fanno sorridere le analisi su cosa conviene fare al premier, se restare a palazzo Chigi, andare al Colle oppure a guidare la Commissione europea: sono i partiti che dovrebbero chiedersi come utilizzare al meglio Mario Draghi al servizio del Paese e non viceversa.
Ci vorrebbe anzi un movimento di opinione pubblica reale, fuori sia dai circuiti artefatti dei social e dei like e fuori dalle tentazioni di fare un altro partito personale, a sostenere le scelte del premier e a saldare le sue scelte con l’interesse generale di una comunità fiaccata eppure pronta al rimbalzo sociale ed economico se ben guidata. 

 

Post scriptum. Complimenti a Fedez per l’abilità con la quale ha spostato il primo maggio dal lavoro che manca ai diritti civili, quando tutti sappiamo che senza il lavoro anche gli altri fondamentali diritti rischiano di essere monchi, e complimenti ai suoi censori che hanno dato dignità quasi rivoluzionaria ad un compitino giusto che sarebbe rimasto tale. E complimenti pure ai politici che hanno nominato i censori pasticcioni e ora inneggiano al cantante che registra le telefonate. Ridateci per favore Pippo Baudo e Mario Maffucci, che almeno sapevano gestire artisti magari più impegnativi di Fedez.

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