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L'Italia (non) è un paese piccolo

Elezioni e referendum passano, i problemi restano. Occorre attrezzarsi

Il test può avere esiti diversi (il recupero del No può riservare sorprese) ma economia e lavoro restano le priorità del Paese. Il ruolo di Conte

Elezioni e referendum passano, i problemi restano. Occorre attrezzarsi

L’Italia è un paese piccolo, ma non abbastanza con i suoi 60 milioni di abitanti da poter usare i referendum alla maniera svizzera, cioè per consultare i cittadini su problemi amministrativi correnti. Continua invece ad utilizzarli per risolvere complicate questioni di assetto costituzionale. Un errore storico fu quello di Bettino Craxi alla fine della Prima Repubblica quando consigliò agli elettori di andare al mare e di non dare il quorum al referendum sull’eliminazione delle preferenze: l’invito non venne seguito e segnò il declino del leader del Psi, sul quale poi mossero i giudici proprio perché si era indebolito politicamente. Ventiquattro anni dopo ci provò Matteo Renzi, il quale fece l’errore opposto: personalizzò a tal punto la faccenda che gli italiani lo bocciarono severamente, senza entrare affatto nel merito delle proposte, alcune delle quali erano condivisibili. Oggi ci prova Di Maio e chiede un voto per rilanciare se stesso all’interno della galassia grillina, col pretesto di diminuire il numero dei parlamentari, cosa peraltro già sciaguratamente votata da settori ampi di Camera e Senato.

 

L’Italia è un paese piccolo, ma non per questo ha un assetto istituzionale davvero definito per assicurare la stabilità del governo rispetto al voto regionale o amministrativo, per cui i riflessi sull’esecutivo di una eventuale sconfitta della maggioranza che lo sostiene sono del tutto prevedibili e normali, nonostante tutti gli interessati dicono il contrario e magari non fanno l’errore che fece Massimo D’Alema nel 2000, quando disse che se la maggioranza avesse perso si sarebbe dimesso. Cosa che avvenne, e lui da comunista che manteneva la parola si dimise davvero. Dunque nei fatti il tema esiste, anche se il premier attuale, Giuseppe Conte, ha cercato di tenersi fuori dalla contesa regionale, pur facendo sapere che votava Si al referendum.

 

L’Italia non è un paese piccolo con la sua economia, che è tuttora la seconda manifattura industriale d’Europa ed esportava per circa 500 miliardi di euro all’anno prima del Covid, ma rischia seriamente di perdere posizioni e altri campioni nazionali, mentre il Paese si indebita alla velocità della luce per far fronte ai danni della pandemia. 

Soprattutto: non solo si indebita ma i leader della maggioranza sono strafelici di farlo e litigano non sulla qualità dei progetti per ottenere i fondi europei a debito ma solo su come restare comunque al potere per gestirli. Almeno sorridessero di meno mentre parlano delle magnifiche sorti e progressive dei miliardi in arrivo, e si preoccupassero anche del fatto che le prossime generazioni avranno il debito di oggi sul groppone per decenni, come noi abbiamo pagato ben caro il livello di cambio lira-euro che la Germania ci impose per entrare nella moneta unica. 

 

Quindi: in teoria ci dovrebbero essere le condizioni affinché Luigi Di Maio si iscriva nell’albo d’oro delle vittime illustri del referendum. Eppure, è realistico che il Si vinca poiché i percettori del reddito di cittadinanza, senza che questo sia giuridicamente configurabile come voto di scambio, si mobiliteranno per far prevalere chi ha dato loro il sussidio che consente di non lavorare a spese della collettività. Gli 80 euro di Renzi appena pochi anni dopo appaiono infatti preistoria, quasi dilettantismo. Valga come esempio questo episodio, al di là dei già noti casi di malavitosi che ricevono il sostegno: il sindaco di Fiumefreddo, in Calabria, sapendo che nel suo piccolo comune di alcune migliaia di abitanti ce n’erano poco meno di 200 che usufruivano del reddito, li ha invitati a palesarsi per alcuni lavori urgenti di pubblica utilità. Purtroppo, se ne è presentato uno solo, immediatamente e nascostamente messo all’indice dai suoi colleghi assistiti. 

Non a caso l’Istat ha appena documentato che al Sud la percentuale di inattivi che hanno smesso di cercare lavoro è altissima e questo non può che essere in relazione all’erogazione del reddito di cittadinanza. La distorsione del mercato del lavoro è evidente, le prospettive magre del Sud se queste sono le ambizioni dei suoi giovani pure. Mentre in tutto il Paese la giusta e in molti casi obbligata politica dei bonus non può continuare evidentemente all’infinito, anche perché non sposta di molto il destino di chi li riceve (scellerati monopattini elettrici a parte).

 

Intanto la macchina informativa-propagandistica (social a parte) che risponde ai Cinque Stelle alla Rai o su alcuni giornali fiancheggiatori, ad esempio, ha messo ripetutamente a confronto lo stesso Di Maio con esponenti del No impersonati da vecchie glorie come Casini o Lupi per vendere agli spettatori la favola della casta che non vuole mollare i privilegi. Ovviamente, la casta di oggi è quella dei cortei di auto blu e degli staff e delle nomine della coalizione al potere, grillini in prima fila, i quali hanno numeri nell’attuale Parlamento che non corrispondono più a quelli che oggi i sondaggi attribuiscono loro nel Paese. 

Ma il gioco delle tre carte è in corso: in ogni caso, getterà ulteriore discredito sul Parlamento, dimenticando che l’Italia è una repubblica parlamentare, che il Parlamento è perciò centrale e che semmai deve essere riqualificato innanzitutto nei suoi componenti che devono ritrovare la forza e la competenza per rappresentare al meglio gli italiani ribellandosi, quando è necessario, all’obbligo di ratificare acriticamente i decreti del governo e tutte ma proprio tutte le direttive europee. 

 

Conclusioni in fatto di referendum: all’apice della campagna populista ratificata dai voti di deputati e senatori a favore del taglio di se stessi i consensi del Palazzo erano pressoché unanimi, oggi se la partecipazione al voto sale il No potrebbe arrivare al 40 per cento, soprattutto se tra l’elettorato del Pd tale posizione si avvicinasse al 50 per cento. Altre volte è successo che il Paese abbia sorpreso tutti, stavolta potrebbe pesare il fatto che l’elettorato ha la testa e le preoccupazioni al lavoro e all’economia e magari giudica la battaglia referendaria un tema che riguarda solo la classe politica, e in tal caso la partecipazione sarebbe minore.

 

Gli schieramenti politici sul referendum si riflettono solo in parte sulle scelte dei giornali. Quello del no comprende Repubblica, La Stampa  e gli altri giornali del gruppo Gedi, curiosamente assortiti con i giornali vicini al centro destra e contrapposti al Fatto che si ritrova affiancato dal Foglio, il quale dalla sua fondazione in poi è stato sempre rigorosamente (e qualche volta spiritosamente) filogovernativo, compresi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Il Messaggero sembra propendere per il Si, se non altro per non rincorrere Repubblica, il Corriere quasi pure ma senza una posizione ufficiale, anche se Milena Gabanelli ha scritto un pezzo molto documentato e molto scettico. Il Domani (editore De Benedetti e direttore Stefano Feltri) è per il No. 

Ciononostante, influisce molto la televisione pubblica schierata per il Si mentre Mediaset ha patito le incertezze del centro destra, anche se le persone anziane che prevalentemente vedono entrambe magari non vanno ai seggi per timore del virus. Cinque Stelle e beneficiari del reddito faranno quadrato, poiché il referendum, come bene ha scritto Stefano Folli su Repubblica, è un voto sui grillini. E deciderà anche l’effettivo ordine di scuderia che daranno i partiti di centro destra, in particolare Lega e Fratelli d’Italia, sinora apparentemente fermi all’idea della coerenza con le posizioni già espresse in aula.

 

Per il voto regionale bisogna ragionare caso per caso. Se diamo per scontato che De Luca vince in Campania e Fitto prevalga in Puglia (l’opinione sul posto è che Emiliano abbia perso consensi soprattutto sulla sanità), mentre il Veneto resta saldamente nelle mani di Zaia e le Marche potrebbero slittare a destra, allora tutto o quasi si gioca sulla Toscana, come qualche tempo fa si giocava sull’Emilia. 

Bonaccini vinse invece alla grande, ma Giani il candidato toscano non sembra avere la stessa grinta. E’ certo invece che se la Toscana resta “rossa” come sempre, il Pd contrabbanderà il pericolo scampato come una grande vittoria. Di contro, va rilevato che se le condizioni economiche influiscono sul voto, il Sud d’Italia ha retto meglio del Nord alla crisi Covid e questo potrebbe favorire anche Emiliano oltre a De Luca. Il fatto è che la ripresa, secondo i dati dell’ufficio studi della Cassa Depositi e prestiti guidato da Andrea Montanino, sarà molto più forte al Nord e molto più debole al Sud. Ma questo si vedrà dopo e non influisce sul voto, visto che al Sud il reddito di cittadinanza resta garantito.

 

Il responso delle consultazioni elettorali e referendarie in una democrazia quale ancora siamo, nonostante l’eccesso di decretazione (e dpcm a iosa per l’emergenza), nonostante il leaderismo anche di chi leader non è, nonostante la fastidiosissima grancassa dei politici sui social, è la risposta giusta, qualunque essa sia. Noi, come avevamo scritto in tempi non sospetti, siamo per rafforzare l’azione sia del Parlamento sia del governo per affrontare nel modo migliore possibile la pandemia e, cosa affatto secondaria, gli effetti che essa ha sull’economia. Se il risultato del voto di questi giorni dovesse andare in tale direzione, toccherà per primo al premier prenderne atto e guidare lui (in base alle indicazioni del capo dello Stato) la fase che si apre, visto che in tal caso Zingaretti e Di Maio sarebbero più deboli. A Giuseppe Conte può riuscire ancora la sopravvivenza politica se ha il coraggio di coinvolgere tutte le energie, in particolare quelle non “stanche” del Paese nella ripartenza. Perché elezioni e referendum passano ma i problemi di ciascuno e del Paese restano.

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