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Come si resta icona della moda? Così rivive la rockstud di Valentino

Negli ultimi dieci anni pochi gli oggetti davvero iconici, come le slipper di Gucci o le Pekaboo di Fendi. Ora ci prova Daniel Lee con Bottega Veneta

Come si resta icona della moda? Così rivive la rockstud di Valentino

Come si diventa “icona” della moda? Quali sono gli elementi intrinsechi, il posizionamento di marketing, la strategia di promozione che rendono un accessorio, un capo o anche un personaggio “iconico”, secondo quel termine che si basa sul concetto di immagine e di riconoscibilità e che deriva dal greco antico, come quasi nessuno ormai sa e tantomeno gli americani che se ne riempiono la bocca? 

 

Me lo domando ancora una volta mentre, su quella scrivania digitale che sono diventate le nostre caselle di mail, piene a scoppiare di documenti, numeri, messaggi che tardiamo a trasferire in luoghi sicuri, compare un messaggio dall’ufficio stampa di Valentino che segnala le celebrazioni per i dieci anni della rockstud, la serie di accessori con l’ormai classica borchia cruciforme che ricorda il bugnato romano. Il testo di accompagnamento alla mail mi segnala che, in omaggio alla tendenza di questi ultimi anni, la rockstud verrà “celebrata” (altra espressione di tendenza) con una serie di collaborazioni fra il direttore creativo Pierpaolo Piccioli e alcuni designer, il primo dei quali sarà l’inglese Craig Green, molto talentuoso, che con Piccioli ha di recente condiviso una collaborazione comune per Moncler. La rockstud Valentino Garavani, proposta dalla prossima collezione in dimensioni Macro, X, segno “inteso anche come firma collettiva e fattore moltiplicativo, tela bianca per nuovi scenari immaginari”, è stata il grande successo della maison di questo ultimo decennio e, dovessimo dire che sapremmo rintracciarne le prime prove, i tentativi in nuce, dovremmo risalire a una vecchia borsa di Fendi che conserviamo nel nostro piccolo archivio personale e che venne realizzata negli anni in cui Piccioli e Maria Grazia Chiuri lavoravano nella divisione accessori della maison romana, sotto la guida di Silvia Venturini Fendi. 

 

Dieci anni fa, le borse e soprattutto le calzature rockstud di Valentino irruppero sul mercato, diventando in breve il modello più ricercato e venduto, per così dire “facile” rispetto a collezioni sempre splendide ma di certo non alla portata di tutte le capacità immaginative e culturali. La rockstud, facile, pop, divertente e come ovvio molto seducente per chi la indossa, è stata infatti copiatissima dal fast fashion e dalle non griffe dei mercatini: il che, come si sa e come postulava Coco Chanel, è sempre un ottimo indicatore di successo. Ora, dieci anni dopo il boom, è arrivato il momento di rinfrescarne un po’ l’immagine e le potenzialità di richiamo, e il nuovo team che circonda Piccioli, a partire dall’amministratore Jacopo Venturini, sta mettendo in campo tutti gli elementi e le leve di marketing del momento e di cui le collaborazioni sono un tratto essenziale, per rafforzarne le opportunità di vendita e di affermazione senza snaturarne le origini e la riconoscibilità. 

 

Sono questi, infatti, alcuni degli elementi che codificano il “gradiente iconico” di un oggetto o, per molti versi, anche di un personaggio. Trasformarsi in “icona” è quanto di più desiderabile, in tempi di predominanza dell’immagine come questi; restarlo è molto difficile; non scadere nell’inutilità, nella ripetitività, nella noia del “troppo visto” ancora di più. 

 

Dovessimo identificare quali oggetti sono diventati “iconici” nel sistema della moda italiana negli ultimi dieci anni, non supereremmo la quota di cinque, a prescindere da quanto scrivono gli uffici stampa: le slipper Princetown di Gucci e l’evoluzione della horsebit, la Pekaboo di Fendi in tutte le sue declinazioni (e il rilancio della “Baguette” a cui sia Chiuri sia Piccioli avevano collaborato ai tempi, fra l’altro), appunto i rockstud di Valentino. Ci sono collezioni e stilisti “on their way to become iconic”, sulla strada per, per esempio Daniel Lee di Bottega Veneta che ha appena riacchiappato un mercato in fuga con la massimizzazione del motivo intrecciato classico del brand su borse e sandali (il macro è una delle tendenze del momento, in effetti). 

 

Poi ci sono i capi e gli accessori eternamente iconici, che non passano mai di moda e che rappresentano una fonte costante di fatturato, che è l’obiettivo finale di tutti e che hanno sostanzialmente un marchio di riferimento, Hermès, insieme con la borsa modello Birkin, oppure Chanel con la giacca, di cui esistono infinite varianti, o ancora lo smoking di Saint Laurent, perfetto anche nella declinazione che ne ha dato Anthony Vaccarello, e poi il modello di ballerina “Viva” di Ferragamo, la “Belle” di Roger Vivier, il “gommino” Tod’s a cui si sta applicando molto il nuovo direttore creativo Walter Chiapponi, i Levi’s 501 nelle loro evoluzioni che non sono mai eccessive eccetera eccetera, ma sempre senza esagerare. Non è un caso che tutti gli esperti di moda e costume, compresa yours truly, la qui presente, vengano intervistati periodicamente sul tema dei “dieci pezzi che non possono mancare in un guardaroba” nel tacito accordo che almeno cinque siano del tutto prevedibili e difficili da scalzare. La battaglia si gioca dunque sugli altri cinque, che variano a seconda delle epoche e del momento e che solo in rarissimi casi diventano eterni. 

 

Il segreto per trasformarsi in icone? Naturalmente non esiste. Si tratta di una combinazione di fattori che parte dalla distintività, che non significa solo l’unicità, ma la capacità di emergere, di “stand out from the crowd”, cioè di spiccare nella folla dei competitor, e di farlo con chiarezza, meglio ancora con un solo elemento riconoscibile, per l’appunto la borchia o il morsetto o la doppia chiusura col lucchetto. La comunicazione arriva molto, molto dopo rispetto a questi elementi. E un eccesso di creatività può addirittura giocare contro: l’elemento fondamentale è infatti la capacità di colpire l’immaginario, un immaginario comune, condiviso da centinaia di milioni di persone, inserendovi un solo elemento dirompente. È il caso delle famose “pantofole di Gucci”, con o senza pelo: quanti conoscono i mocassini di Gucci da decenni? A occhio e croce, almeno un miliardo di persone. Quante hanno sognato ogni tanto di poterli indossare con la parte posteriore della tomaia piegata sotto il tallone? Quasi altrettante, soprattutto in una giornata calda o seduti comodi alla scrivania. E dunque, come non avrebbe potuto avere successo un mocassino riconoscibile ma “ammorbidito” nella linea e nel pellame, reso comodo come una pantofola e abbastanza lussuoso da poter essere indossato sotto uno smoking? 

 

Fateci caso, le icone della moda non sono mai pezzi di creatività estrema, o scomodi, o inutili. Questi durano una stagione, “fanno vetrina” come si dice, e poi scompaiono. I pezzi iconici sono innanzitutto pezzi che ci fanno sentire bene. Un jeans, una borsa che contiene anche l’ipad in tutte le sue versioni. Qualcosa che assomiglia, innanzitutto, a noi stessi nella nostra versione migliore.

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