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Il punto

I cocci di una politica ritorta su se stessa che non fa bene al Paese

I partiti fanno i conti con l’incapacità di uscire da logiche di potere e correntizie. Ma i vecchi assetti non funzionano più. E l’Italia ha fame di futuro

I cocci di una politica ritorta su se stessa che non fa bene al Paese

L’ultimo in ordine di tempo è lo sfracello del partito di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Appena messo piede nel nuovo governo – + Europa sostiene Draghi e Della Vedova è pure diventato sottosegretario agli Esteri – è precipitato in un vortice di polemiche. Risultato? La storica leader radicale ha lasciato e il segretario si è dimesso. E’ passato poco più di un mese dall’insediamento dell’esecutivo di unità nazionale dell’ex numero uno dell’Eurotower. Un mese solo che sta pesando nella vita politica italiana come un’era geologica. Il 13 febbraio, giorno del giuramento al Quirinale di Mario Draghi e dei suoi ministri, è la data che puntella “un prima e un dopo”, una soglia al di là della quale i mutamenti stanno giungendo inevitabili.

 

L’apnea della politica

Non si tratta solo degli effetti collaterali dell’arrivo sulla scena di un tecnico, o meglio di un banchiere, avulso dal contesto politico del Paese e più avvezzo, negli anni recenti, a dinamiche di governo e istituzionali d’oltralpe. Piuttosto, è l’effetto domino di una spinta potente, destinata a rompere vecchi equilibri. E a far cadere, uno dietro l’altro, i mattoncini di un establishment partitico nato da ‘circostanze condizionanti’ venute a mancare. Per il Pd, come per il Movimento di Beppe Grillo. E, seppure in chiave differente, per i renziani. Anche il centrodestra fa i conti con l’apnea politica che ha lasciato spazio al governo del presidente. Il 3 febbraio, quando ha conferito l’incarico a Draghi, Mattarella ha silenziato una politica chiassosa, oggi ritorta su se stessa nonostante gli scenari futuri tutti da rielaborare e costruire. C’è la pandemia, è in arrivo il Recovery Fund: il volto della nazione è destinato a cambiare per i decenni a venire.

 

Le camarille nei partiti

Il governo Conte II ha rappresentato, per tutto il tempo della sua durata, un eccellente collante. Capace di tenere insieme partiti diversi ma con un tratto in comune: tanto nel M5S quanto nel Pd erano già in atto evidenti smottamenti. Malcontento, fratture e opposte vedute hanno albergato al loro interno, benzina ideale per un sistema di correnti, più al servizio di interessi di parte che non di idee e progetti. I pentastellati hanno visto contrapporsi via via più marcatamente due grandi fronti: l’ala governista da un lato, quella movimentista delle origini dall’altro. Con l’aggiunta di cordate minori, di volta in volta pronte a parteggiare per l’una o per l’altra.

 

Nel mentre al Nazareno, dopo la vittoria all’ultimo congresso di Nicola Zingaretti, approdato alla leadership con una maggioranza schiacciante, la tregua era solo apparente. Ne è dimostrazione il fatto che la geopolitica delle aree interne dal 2019 si è persino complicata. E nemmeno il 70 per cento dei consensi è riuscito a proteggere il segretario da attacchi costanti e da un lento logoramento. Basta menzionarle le correnti piddine per averne un’idea. Areadem, zingarettiani, Fianco a Fianco, Base Riformista, Sinistra, Sinistra radicale, Giovani turchi e, negli ultimi tempi, gli amministratori. Ma, come dicevamo, finché il secondo esecutivo Conte è sopravvissuto, il precario ‘patto di non belligeranza’ in casa dei due azionisti principali dell’asse giallorosso, in qualche modo, ha retto. Complice una bilanciatissima distribuzione di incarichi e nomine. Un equilibrio fragile, destinato a saltare con la crisi di governo. Evento scatenante di vecchie e nuove battaglie, madre del redde rationem andato in scena dinanzi a cittadini attoniti, già assediati dal covid e da una crisi economica senza precedenti nella storia repubblicana.

 

Il nuovo M5S di Conte fatica a decollare

Il Movimento Cinque Stelle è dilaniato dall’insediamento del governo Draghi. Uno dei fondatori della prima ora, Alessandro Di Battista, lascia in dissenso con la linea che sostiene l’esecutivo che alla vecchia maggioranza unisce Lega e Forza Italia. Poco dopo il reggente espelle dai gruppi parlamentari e dal partito tutti quelli che non hanno votato la fiducia al nuovo premier.

Partono i ricorsi in tribunale, i veleni, volano gli stracci. Grillo chiama l’ex presidente del Consiglio per raccogliere i resti di un Movimento che si è perso e che ora è “liberale e moderato”, più centrista della vecchia Dc. Conte accetta di guidare il nuovo Movimento ma il progetto ancora non decolla. Imbrigliato tra beghe sulla piattaforma Rousseau, la guerra con Casaleggio, il pressing degli ‘anziani’ per superare il blocco dei due mandati.

 

Il voto compatto su Letta basta a rifondare il Pd?

Nel Pd il terremoto è ancora più potente. La linea del segretario che mira a rinsaldare l’asse con i grillini e a riconoscere a Giuseppe Conte il ruolo di ‘federatore’ giallorosso acuisce le divergenze tra i democratici. Lotte intestine, colpi bassi, pressioni per la leadership. Zingaretti è indebolito e decide di dimettersi. Un colpo di scena, una decisione che determina sconcerto, quasi stordimento. Troppo intente a litigare, le correnti non hanno annusato che la corda si stava spezzando. Dopo giorni in cui i nomi dei big e dei possibili candidati alla segreteria rimbalzano su giornali e siti di informazione, la scelta cade su Enrico Letta. L’Assemblea Nazionale lo vota compatta. Un plebiscito. Nelle sue mani ci sono i cocci di un partito alla deriva. Rifondarsi o perdersi: l’ultima chance del Pd che si affida a uno dei dem più stimati. Ma costretto a un lungo esilio proprio per gli scontri nel partito che, quando era premier, si schierò con Renzi.


Gli azzardi di Renzi hanno portato Italia Viva ai margini

Eccoli i renziani oggi. Artefice della crisi del Conte II, con l’arrivo di Draghi Matteo Renzi è praticamente scomparso dal gotha della politica. Se prima era l’ago della bilancia della maggioranza, e poteva decidere se tenere in vita il governo o decretarne la fine, adesso il suo partito non ha alcuna incidenza. Dopo il caso del principe saudita Mohammed bin Salman la sua reputazione è scesa ancora, mediaticamente il gradimento è precipitato. Da un po’ è scomparso dai radar insieme agli altri maggiorenti di Italia viva.

 

Salvini stretto tra Draghi, Meloni e Giorgetti

Che dire del centrodestra? Il quadro è mobile. Salvini ostenta sicurezza e, intanto, mette mano alla macchina del partito. La vuole rafforzare al Sud e cerca nuovi volti per i capi dipartimento dopo il passaggio dei ‘vecchi’ in ministeri e sottosegretariati. Ma è costretto a guardarsi le spalle. Dal neo ministro allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, suo consigliere e insieme competitor, uomo delle istituzioni, fautore della svolta europeista del leader di via Bellerio. E da Giorgia Meloni che, rimasta all’opposizione, difende da sola il baluardo del populismo e del sovranismo, pronta a scipparne il vessillo alla fronda salviniana. Poi c’è Draghi. La Lega è ormai forza di governo e Salvini è irrequieto: preferisce il ruolo del partito di lotta ma il premier non è disposto a tollerare intemperanze e mosse furbesche.

 

La Meloni da sola non basta a Fratelli d’Italia

Fratelli d’Italia ha scelto l’opposizione e si prepara a incassare consenso per essere l’unica voce fuori dal coro. I sondaggi danno ragione alla leader che paga però lo scotto di un generale senza truppe. O meglio, senza colonnelli. In un rapporto di assoluta simbiosi tra il partito e la Meloni, a Fratelli d’Italia manca una classe dirigente in grado di farne forza di governo. La capo partito non l’ha ancora costruita continuando ad accentrare la gestione politica nelle sue mani.

 

La tregua armata dei berlusconiani

Resta Forza Italia. Scampato il pericolo di una scissione subito dopo le dimissioni di Conte, oggi Berlusconi si ritrova Brunetta e Carfagna ministri. Quelli che avevano già le valigie in mano se il Cavaliere non avesse dato l’appoggio all’ex governatore di Bankitalia. Armistizio firmato, dunque. Ma alla maniera di altre esperienze appena menzionate che dopo Conte sono deflagrate. In politica i nodi vengono sempre al pettine.

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