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Lo sport simbolo di un Paese forte

La Nazionale a Wembley e Berrettini a Wimbledon spingono l’Italia

Mario Draghi vara le riforme mentre si allarga la distanza tra il marketing elettorale dei partiti e i problemi reali. E se Conte, Letta e Salvini…

La Nazionale a Wembley e Berrettini a Wimbledon spingono l’Italia

Winston Churchill diceva che “gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le  guerre come se fossero partite di calcio”. Al di là del giudizio duro sull’indole non guerresca degli italiani, ai tempi del premier che vinse il nazismo il calcio parlava effettivamente inglese, mentre oggi l’Inghilterra si riaffaccia in una finale cinquantacinque anni dopo il titolo mondiale vinto contro la Germania aiutata dal gol fantasma di Geoff Hurst nei supplementari. E mentre noi da allora (fu la fatidica Corea con un gol del dentista Pak do ik a buttarci fuori da quel torneo) abbiamo vinto un Europeo e due mondiali, perdendone altri due in finale col Brasile, loro sono letteralmente scomparsi.

 

Legittimo che puntino a vincere a casa loro il primo torneo europeo dopo la Brexit, e non è affatto casuale che sia l’Italia di Sergio Mattarella, che è a Wembley, e di Mario Draghi a sbarrare loro il passo. Al di là del risultato, che nel calcio non si può mai dare per scontato, la cavalcata degli azzurri verso la finale è già una vittoria ed è il simbolo di un Paese che sta ritrovando il suo ruolo in Europa e nel mondo. Nel 1982 la vittoria a Madrid chiude definitivamente gli anni Settanta del terrorismo e si apre alla cavalcata del Made in Italy con il quale diventammo la quinta potenza industriale del mondo, scavalcando proprio l’Inghilterra.

Anche nel 2006 la vittoria a Berlino sulla Francia aveva fatto intravedere la ripresa, vanificata poi dal tracollo dei mutui subprime in America e dalla crisi globale che ci ha frenato fino a pochi anni prima della pandemia. E poi, a meglio scandire la simbologia bella di domenica 11 luglio e dell’Italia a schiena dritta, non dobbiamo certo dimenticare che Matteo Berrettini è il primo italiano finalista a Wimbledon in 144 anni di storia del celebre torneo di tennis sull’erba. Churchill avrebbe dovuto rivedere radicalmente i suoi giudizi.

 

Mario Draghi intanto nei giorni scorsi ha fatto approvare dal Consiglio dei ministri la riforma della Giustizia, una delle condizioni più importanti poste da Bruxelles per erogare i fondi del Pnrr, e ha inaugurato la fase due del suo governo dopo appena quattro mesi dall’insediamento: il messaggio è che i patti si mantengono, che gli stessi mal di pancia della maggioranza (a cominciare dagli spasmi velleitari di Giuseppe Conte) non possono intralciare un percorso di risanamento che è di suo molto complicato, che il Paese deve arrivare in sicurezza all’appuntamento con l’elezione del presidente della Repubblica. In sicurezza sanitaria, in sicurezza con l’Europa e nel Mediterraneo, in sicurezza nei rapporti internazionali, in sicurezza sulla ripresa economica. Sono i fondamentali di Draghi, uno che sa apprezzare anche il gioco del calcio ma che in perfetto spirito di squadra lascia al Quirinale i compiti di rappresentanza a Wembley e chiede ai partiti di fare la propria parte nell’interesse del Paese e non delle rispettive tifoserie.

 

Ciascuno di noi sulla riforma della giustizia avrebbe certo voluto di più e di meglio, magari che i giudici non solo fossero ma anche apparissero imparziali, ma il fatto che i giustizialisti hanno levato lai più alti dei garantisti qualcosa vuol dire. E, pur senza le slide di Renzi premier e gli annunci a ripetizione del suo predecessore, Draghi farà lo stesso sulla pubblica amministrazione, sul fisco, sul lavoro, sulle nomine, sulle decine di riforme che il Pnrr richiede e su tutte le questioni di sostanza che riguardano le scelte che fanno capo al governo. Ovviamente, sentirà i partiti sin dove le loro proposte saranno ragionevoli rispetto al risultato da raggiungere, poi deciderà senza lasciarsi influenzare dalle questioni di schieramento, di bandierine, di identità o quant’altro.

 

È questo il punto centrale della questione politica italiana oggi: la divaricazione sempre più forte tra le questioni di marketing elettorale dei partiti e la necessità di governare il Paese con realismo, saggezza, velocità nel seguire i fatti e accordarli con la comunicazione (non viceversa)  e quel tanto di coraggio che serve per fare piccoli o grandi passi rinviati da anni. Attenzione: nessuno contesta il ruolo e l’importanza dei partiti, cui spetta di trasferire in Parlamento e poi nell’esecutivo la volontà popolare, ma il fatto è che essi da tempo non sono più trainanti e sono stati pressochè assorbiti dai social media. Infatti, solo Renzi ha risposto a Fedez e Ferragni perchè chiamato in causa direttamente, tutti gli altri hanno lasciato la testa sotto la sabbia, contenti che qualcuno bastonasse il senatore fiorentino senza capire che quel “la politica fa schifo” del rapper e dell’influencer che insieme fanno 30 milioni di follower  riguardava tutti gli esponenti dei partiti, anche se non casualmente diretto al più antipatico, e quindi più mediaticamente fragile, tra di loro. 

 

La divaricazione non dipende solo dalla ridotta partecipazione dei cittadini alla vita pubblica o piuttosto dal fatto che tanti passaggi in cui prima era necessaria la mediazione anche clientelare della politica oggi vanno in automatico, talvolta anche attraverso le nuove tecnologie, ma da scelte precise dei protagonisti. Enrico Letta è tornato dal suo dorato “esilio” parigino a guidare il Pd con il compito non dichiarato di organizzare i consensi parlamentari per Romano Prodi alla presidenza della Repubblica e crede di farlo meglio spostando l’asse del partito a sinistra attraverso il voto ai sedicenni (va benissimo che i diciottenni votino per il Senato, ma chi ha in famiglia ragazzi più giovani sa che la politica è lontanissima dai loro interessi e dar loro “gratis” il voto serve a ben poco), lo ius soli e la legge Zan (che sta diventando un mini referendum sulla sua segreteria).

E pensare che solo ora sembra si stia ricordando dei distretti industriali e della stessa sua esperienza storica all’Arel, l’agenzia di studi economici e politici fondata da Nino Andreatta e Umberto Agnelli: il fatto è che le leadership politiche non si improvvisano, e Letta è sempre stato un buon gestore e un accorto costruttore della propria immagine da onesto lavoratore del centrocampo politico e poco altro. Insomma, il “cacciavite con l’anima” che è il suo distintivo non funziona perchè oggi il cacciavite non basta e per l’anima ciascuno pensa alla sua, il che è già tanto.

 

Stesso discorso per Giuseppe Conte, che il Pd continua a tenere come suo “riferimento nel campo progressista”, mentre l’ex premier a malapena potrà forse intestarsi un pezzo della diaspora grillina. Il fatto è che non si può pensare di poter portar via il grillismo a Grillo, che pure s’era fatto a nuoto anche lo stretto di Messina pur di prendere voti: in altri tempi, altri al suo posto avrebbero fatto salti di gioia se chiamati ad affiancare un capo partito, e poi chi aveva più tela tesseva. Invece la malattia del leaderismo senza leader continua a far danni. Anche a destra non sono rose e fiori nonostante l’abilità manovriera di Salvini a sostenere il governo Draghi e l’intuizione di Meloni a restare all’opposizione: restano tutti i problemi di agibilità in Europa e la difficoltà a trovare candidati per le elezioni amministrative, malgrado i sondaggi favorevoli. 

 

L’altra divaricazione è tra l’azione dei partiti e l’economia: il rimbalzo post fase acuta della pandemia è tutto sulle spalle delle imprese, che stanno recuperando da sole il tempo perduto assistite solo dalle moratorie in essere sui prestiti bancari e dalla cassa integrazione per i settori più in difficoltà a causa dei lockdown. Manca un evento di traino trasversale ai diversi settori: può esserlo l’Ecobonus 110 per cento se cittadini ed imprese avranno certezze quanto prima se esso viene prorogato al 2023 oppure no, e farlo nella legge di stabilità a fine anno può essere tardi. Manca poi il collante sul territorio, cosa che il premier non può fare perchè non ne ha il tempo anche se la sua prima e unica uscita dalle parti di Modena e Sassuolo è stata un evento importante e positivo. Le imprese hanno invece una carta in più sull’export: la credibilità internazionale di Mario Draghi e il ritrovato posizionamento del Paese nelle alleanze internazionali sono un patrimonio di fiducia che può fare la differenza.

 

In questa triangolazione a singhiozzo tra governo, partiti e imprese l’Italia arriva fra sette mesi all’appuntamento con l’elezione del presidente della Repubblica, che però è soltanto in mano ai partiti e due su tre di quelli di maggioranza hanno altri disegni rispetto a quanto si aspetta l’opinione pubblica, cioè la richiesta a Sergio Mattarella di restare ancora al Quirinale e quindi a Mario Draghi di continuare il suo lavoro a palazzo Chigi sino alle elezioni politiche del 2023. Della corsa al Colle e dei suoi effetti diretti collaterali avremo modo di riparlarne, ora la Nazionale di Mancini a Wembley (per Matteo Berrettini è più difficile contro Djokovic) può dare al Paese un’emozione elementare ma reale e confidiamo che anche in finale la risposta a Winston Churchill sia un’onesta ed esaltante vittoria da leader dell’Europa quali siamo.

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